giovedì 17 marzo 2011

Remember, remember

"La felicità è la prigione più insidiosa di tutte"
Alan Moore



Buonasera, Italia.
State comodi? Pensavo fosse ora di scambiare due chiacchiere.
Suppongo che vi chiediate perchè vi ho chiamato qui stasera. Vedi, non sono del tutto soddisfatto del vostro recente rendimento: temo che il vostro lavoro stia perdendo colpi e... beh, purtroppo ho pensato di mandarvi via.
Lo so, ormai è tanto che lavorate per l'azienda. Quasi 150 anni! Ricordo il giorno in cui avete iniziato il vostro impiego, appena smessi i panni degli oppressi e con un sacco di idee strette nel pugno arruffato. « Da dove comincio, sir? » Chiedeste mestamente. Ricordo le mie parole: « laggiù c'è un sacco di povertà ed ignoranza, cominciate pure da lì », dissi sorridendo paterno.
Da allora abbiamo fatto parecchia strada, e in tutto questo tempo non siete mancati un giorno. Non pensate che abbia dimenticato il vostro ammirevole stato di servizio, tutti i contributi offerti all'azienda: opere d'arte inestimabili, una Costituzione di indubbio valore, personalità eccellenti, un patrimonio storico unico al mondo...
Una lista impressionante, non fraintendetemi. Ma, ad essere sinceri, abbiamo avuto anche i nostri problemi; non lo si può negare. Sapete da cosa penso siano stati provocati?
È la vostra fondamentale riluttanza a fare progressi nell'azienda. Pare sempre che vogliate fuggire da ogni responsabilità, ed evitare di essere il capo di voi stessi.
Vi ho offerto una promozione, ed ogni volta mi avete deluso; « Non ce la farei mai direttore, preferisco restare al moi posto! »
Siamo sinceri: nemmeno ci provate, vero?

La realtà è che siete stati fermi troppo a lungo, e questo si riflette sia nel vostro lavoro sia nella qualità generale del vostro comportamento: i continui litigi, gli atti di teppismo, i problemi a convivere pacificamente ed accettare di essere parte della stessa squadra. Poi ci sarebbe anche dell'altro... avrei preferito non tirarlo fuori, ma le voci sulla vostra vita privata si fanno sempre più allarmanti. Pubblicamente, vi comportate da perfetti modelli di armonia, valori familiari e fedeltà; d'altra parte, in privato, non esitate a gettarvi nelle stesse pratiche che esecrate. Spesso finite con il ferire chi vi sta più a cuore, chi non dovreste mai ferire. I vostri comportamenti, dietro la patina di benessere e soddisfazione con cui timbrate il cartellino ogni mattina, tradiscono disperazione, codardia ed intolleranza coltivata nel profondo.
In sostanza: così proprio non va. Ma, d'altra parte, chi potrei incolpare se non voi?
È sempre troppo facile additare come responsabili i cattivi amministratori; seppure, bisogna ammetterlo, nei vostri 150 anni di impiego l'amministrazione è sempre stata pessima. Abbiamo avuto una lunga serie di malversatori, imbroglioni, bugiardi e maniaci che hanno preso decisioni catastrofiche. Ma chi li ha eletti?
Siete stati voi. Voi avete nominato queste persone, avete dato loro il potere di prendere decisioni al posto vostro. Certo, è umano errare una volta o due, ma fare sempre gli stessi errori, anno dopo anno, mi pare pura e semplice premeditazione.
Avete incoraggiato questi incompetenti criminali, che hanno ridotto la vita nell'azienda a un inferno, avete accettato i loro ordini insensati senza sollevare dubbi.
Potevate fermarli; dovevate soltanto dire un pò più spesso di no. Naturalmente, mi rendo conto che le giornate lavorative portino le forze allo stremo, che non desideriate altro che tranquillità e pancia piena: capisco che abbiate voglia di essere felici più di quanta ne abbiate di essere liberi.

In conclusione, pur con le attenuanti relative al vostro caso, mi vedo costretto a sollevarvi dall'incarico. Ma non siate troppo tristi, oggi non è giornata per pensare agli errori del passato e del presente, o alle sconfitte inevitabili del futuro.
Oggi è il 17 marzo e dovremmo considerarlo in prospettiva. Il patriottismo è capace di rivelarsi il sentimento più farsesco, patetico e falsamente aulico di tutti: più lo si celebra e se ne anela la presenza, più perde di valore. E non ha senso celebrarsi, senza mettersi in discussione: non ha senso certificare la nostra nascita, senza attestare che stiamo morendo, lentamente, una riforma della giustizia alla volta, un parlamentare comprato dopo l'altro, un nuovo cervello appeso allo schermo ad accompagnare i precedenti. Più che ricordarci di quando siamo nati, molti di noi vorrebbero esplodere, per poi edificare sopra le ceneri di ciò che ormai considerano un relitto.
Questa mi pare la sola nota capace di rendere autentico un sentimento come il patriottismo: amare qualcosa o qualcuno significa primariamente ricordarsi del suo potere nel farci stare tanto male, nel soffrire amaramente se ci sentiamo traditi.
Oggi, 17 marzo 2011, ognuno di noi è un patriota nella misura in cui il dolore gli attanaglia lo stomaco. 

giovedì 10 marzo 2011

42

Voi ci credete in Dio?
Io diciamo di sì, o quantomeno ci provo. Ma ogni tanto mi chiedo se sia effettivamente una cosa di cui vantarsi.
Fede” non significa forse incoscienza? Risposte ferme ed indiscutibili a domande a cui rispondere sarebbe impossibile, come “cosa c'è dopo la morte” oppure “qual è il mio scopo nel mondo”, dovrebbero suscitare sospetto e diffidenza, non cieco assenso.
Se qualcuno sostiene di avere soluzioni a tutti i vostri dubbi, anche ad interrogativi irriducibilmente oscuri, diffidate di lui, sempre; sta mentendo. Non ha né i poteri né le conoscenze che afferma di avere.
Chi appartiene ad una comunità, sia in senso ristretto sia, più genericamente, come insieme di persone che hanno un'idea comune di com'é Dio, deve per forza di cose fare i conti con le sembianze dei propri confratelli: come faccio, in quanto individuo razionale, ad accettare serenamente di far parte della stessa comunità religiosa di fanatici, esaltati e dittatori intellettuali, che con le loro professioni di fede hanno diffuso odio, violenza e distruzione? Come faccio ad essere tranquillo, nel pensare che i miei “compagni di fede” trattano l'evoluzione di Darwin come un mito e sostengono che la Terra ha seimila anni?
E poi, perchè questo mi scandalizza? È solo una piccola porzione delle assurdità incomprensibili e pericolose che, ad una prima analisi, contiene il mio Libro Sacro ufficiale: Dio che uccide milioni di persone, affoga civiltà e fa piovere zolfo sui sodomiti, Dio che è geloso se si prega qualcos'altro, Dio che non si manifesta mai, ma parla solo in privato a cosiddetti profeti in cui poi dovremmo confidare ciecamente.
Dio che uccide bambini, che è onnipotente ma non batte ciglio di fronte ai disastri della storia; Dio che sta fermo a guardare mentre ad Auschwitz succede quello che succede.

Non è forse una mia colpa intrinseca credere in un Dio così? Chiaramente la fede presuppone un salto irrazionale, per il quale si è tenuti a sospendere i propri dubbi: il genere di balzo, di “sospensione” a cui ci si riferisce quando si pensa ad Abramo e alla sua lotta interiore nel decidere se uccidere il proprio figlio in nome di Dio. “Non capisco, non approvo, mi sento in colpa... ma ci credo”.
Comportarsi così sarebbe davvero indice di sanità mentale? Oppure forse, in fondo, la fede si riduce a disturbo neurologico presente in alcuni di noi?
Sperare che lassù ci sia qualcosa è umano, così come lo è il non rassegnarsi all'idea di svanire nel nulla, una volta morti. Senz'altro è lecito e comprensibile, ma davvero è la cosa giusta da fare?
Il conforto che riceviamo dalla fede vale davvero una tessera d'iscrizione ad un club così colmo di ignoranza, odio fratricida, irrazionalità, stupidità e pregiudizio?
Probabilmente sì: credere davvero che la morte non sarà solo un clic che ci spegne per sempre vale qualunque prezzo e compromesso. È troppo consolante, troppo piacevole gettarsi in una favola di angeli che trasportano il nostro nudo spirito, mentre uno stereo celestiale suona “Breathe me” di Sea e San Pietro ci attende ai varchi; in nome di questa storia, di questa buona novella, siamo disposti a tutto; anche ad odiarci e scannarci a vicenda solo perchè riteniamo il nostro mito più reale di un altro.
In sintesi: sono convinto che spesso si creda in Dio perchè si ha paura della morte e del dolore, tanto che talvolta mi considero un rappresentante di tale atteggiamento. Ma, d'altra parte, c'è qualcosa di più complesso e indefinito dietro l'esigenza della fede, ed anche questo è altrettanto indiscutibile. Non solo la morte, ma il complesso di tutte le domande senza risposta: cosa c'era prima del Big Bang? E prima della Nana Bianca che lo ha generato? E prima del nulla anteriore alla Nana Bianca? E prima ancora? Vediamo un creato ma non un creatore, un orologio privo di orologiaio, e i nostri interrogativi in materia esisteranno finchè esisterà l'uomo.

Come posso, con le premesse che ho posto, pensare di offrire una conclusione coerente? Finirei per pontificare su qualcosa di cui non sono nemmeno convinto, e mi trasformerei nel “dittatore di un credo” che fino ad un attimo prima criticavo. Il vero messaggio è proprio in questo punto, nell'assenza di una conclusione: nessuno, nemmeno il più santo essere umano mai esistito sulla faccia della terra, può suggerire al prossimo se, cosa o perchè credere.
La strategia più eticamente valida, razionale ed umana in proposito è sempre il dubitare: credere, se si sceglie di farlo, ma ricordarsi della natura “dubbiosa” della propria fede; farsi domande, e persino mettere in discussione i comportamenti del vecchio barbuto lassù, se si trovano motivi adeguati.
Penso che, se Dio esistesse, apprezzerebbe più chi usa il cervello di chi non lo fa, al di là delle professioni di fede cieca o di ateismo radicale. Ultimamente con Dio ho un po' questo rapporto: mi sta simpatico lui, detesto molti dei suoi sostenitori.
Un po' come con il mio presidente del consiglio, a pensarci bene...

P.S. Il primo che indovina perché questo post si chiama “42” vince un portachiavi a forma di zombie. Lo giuro sul mio presidente del consiglio, quello simpatico!