venerdì 9 dicembre 2011

Quietly waiting for the catastrophe

Now I'm quietly waiting for
the catastrophe of my personality
to seem beautiful again,
and interesting, and modern

da “Mayakovsky di Frank O'Hara

Ieri sera ho fatto un sogno erotico sulla moglie del premier, ma non ricordavo di quale premier e di quale moglie si trattasse. Non facevo tanto caso a ciò che stava succedendo, perchè ero distratto da un cameraman che riprendeva tutto e mi sventolava sulla faccia liberatorie finte da firmare con il sangue. Mi diceva che avevo vinto la partecipazione ad un reality show e da lì a pochi minuti sarei stato chiamato al confessionale; per confessarmi, essere assolto e finire in paradiso. Che poi è come andare in nomination. Se perdi il televoto muori, se vinci i tuoi peccati vanno in prescrizione.
Non credo più niente.

Ero fuori a cena in un ristorante lussuoso. Era tutto pieno, ho aspettato venti minuti che si liberasse un tavolo. La serata è stata un disastro, i camerieri interrompevano in continuazione la cena per dirmi che anche loro scrivono, anche loro sono degli artisti e vorrebbero sfondare nel mondo dello spettacolo. Hanno tutti un blog. Per qualche strana ragione, i camerieri pensavano che fossi famoso. Che fossi un vip. Mi chiedono se li metto in lista per venerdì sera.
Non credo più niente.

Venerdì sera sono in lista, e mi aggiro confuso per le stanze sfarzose di una villa. La cocaina appoggiata sulla tazza del cesso viene spazzata dalla colf filippina che l'ha scambiata per polvere: mi evoca una riflessione sulla profonda contraddizione della natura umana. Luccicare, brillare e sorridere come squali mentre si annega e ci si dibatte per liberarsi da una morsa: sono un soldato in missione, che spara con un fiore inciso sulla carne viva. Al posto degli occhi ho lo stemma della pace, ma sul mio elmetto c'è scritto « born to kill ». Sono generico in tutto, persino nelle metafore.
Non credo più niente.

Incontro il diavolo sulla strada di casa, ha le sembianze di qualcuno di familiare. Dice che io sono uguale a tutti gli altri e che devo pagarne il prezzo; è ragionevole, ma non ci credo. Io soffro per questa situazione, faccio tanti bei discorsi sul dramma dei disoccupati e ogni tanto vado persino alle manifestazioni. Mi sono detto: scrivere serve a qualcosa, può rivelarsi utile ad una causa. Non ho ancora deciso come o perchè, ma sarò un ribelle un giorno, lo so. Darò una sferzata al sistema cambiandolo dall'interno. Getterò i semi di quella tanto agognata discesa nell'anarchia di stampo platonico che mi ha sempre ispirato come animale politico. Sono già nato, in quanto scrittore dilettante, sul pianeta virtuale degli apparsi, dei 15 minuti di fama rigurgitati da una piattaforma multimediale che doveva in teoria liberarci, ma che in pratica ci ha fornito accesso 24 ore su 24 a pornografia infantile e poco altro. Sesso e Gesù sono le due parole più cercate di google. Due motori virtuali in un cosmo reale.
Non credo più niente.

Non credo più a niente... tranne che ad un indistinto sentimento di orribile, prossimo pericolo fisico. Un pericolo enorme, che grava su tutto, come lo si può concepire negli incubi più angoscianti. Bisbiglio come un folle avvertimenti o profezie che nessuno osa poi ripetere consapevolmente o soltanto ammettere di aver udito. La terra mi sembra oppressa da un mostruoso senso di colpa e dagli abissi fra le stelle soffiano gelide correnti che fanno rabbrividire gli uomini nei luoghi bui e solitari. Il corso delle stagioni ha subito un'alterazione catastrofica: il tepore dell'autunno indugia ad andarsene e sento che il mondo, forse l'universo, si è sottratto al controllo degli dei o delle forze conosciute ed è passato sotto il dominio di entità inimmaginabili.
Faccio finta di essere H.P. Lovecraft nell'Italia del domani. Non credo più niente.
Avrei voglia di pensare a come sarà il mondo tra molti anni, ma tutto quello che mi viene è l'immagine di uno stivale piantato sopra una faccia.
Non so proprio cosa farci, è più forte di me.

martedì 8 novembre 2011

Il principio di autoconsistenza di Novikov

Sapete di cosa sto parlando.
È quella vocina dentro la tua testa, che si preoccupa per te, ponendosi un giusto e sacrosanto interrogativo: sarò bravo abbastanza?
Non importa per cosa. Sarò bravo abbastanza?
Abbastanza da essere presidente del consiglio? Beh, magari non così bravo.
Abbastanza da poter campare di ciò che penso e scrivo? Mi sembra impossibile.
Abbastanza da meritare la quantità media di felicità di un essere umano comune?
Non lo so. La gente ha più o meno sempre pensato che sì, sono bravo abbastanza per quello.
Ma non è così facile come sembra. E soprattutto, non importa cosa ne penso io. Il capo è la vocina interiore.
Tutto il mondo è palcoscenico e il resto... è Vaudeville.

Quando udii l'astronomo acculturato,
quando dimostrazioni e cifre vennero incolonnate dinnanzi a me,
quando mi mostrarono carte e diagrammi per sommarle, dividerle e misurarle,
quando mi sedetti a udire il seminario dell'astronomo tra mille applausi in sala,
oh quanto presto mi stancai e stufai,
fino a che mi alzai e scivolai via scappando,
nella mistica aria notturna brumosa, e di quando in quando
rimirai in perfetto silenzio le stelle.

da “When I heard the learn'd astronomer” di Walt Whitman.

La probabilità che esca testa, nel lancio di una moneta, è 1/2 su n lanci, quindi il calcolo è una roba facile facile come 1/2^n: la probabilità di un evento semplice è data dal rapporto fra i casi favorevoli all'evento e i casi possibili.

Però il calcolo delle probabilità è una cosa un po' troppo complessa perchè io sia in grado di orientarmi nelle dinamiche che trovo più interessanti: non tanto le possibilità che verrà 6 in un lancio di dado, quanto più la probabilità che un dato spermatozoo, tra migliaia di milioni possibili, abbia fecondato in un dato momento un certo ovulo, tra i miliardi di ovuli possibili, e quell'unione abbia generato, tra sconfinati potenziali individui, proprio me.
L'universo è casuale, puro caos; particelle subatomiche in urto continuo e senza meta. Giusto? Le mie nozioni di fisica sono ridicolmente arretrate per poter anche solo pensare di commentare questi assunti.
Con una brutale semplificazione, è così che stanno le cose: questo ci insegna la scienza. Ma cosa ci viene davvero detto con "questo"?
Cosa possiamo dedurre dal fatto che una sera a caso, tra tutte le sere possibili, io mi trovi in un luogo preciso e incontri, in mezzo a tutte le conoscenze possibili, proprio quel dato individuo, che avrà il potere di “urtare” contro di me, scuotendo il mio moto discontinuo e imprevedibile, sbandando la sua stessa traiettoria e deviando dal punto a cui era destinato ad arrivare? Cosa significa, se non che la sorte della propria felicità è affidata ad una coincidenza assurda e improbabile... eppure così comune, dal momento che il mondo ne è letteralmente sommerso?
E cosa c'è di più vicino al concetto di infinito, se non questa magistrale improbabilità che penetra il nostro quotidiano senza che noi nemmeno ce ne accorgiamo?

Come può la mia felicità, il mio stesso futuro, essere influenzato solo da un incontro che era più probabile non fosse mai accaduto? Che ne è stato di tutti i potenziali incontri, possibili scosse alle fondamenta della mia esistenza poderose quanto lo è stata quella a cui prima mi riferivo, che sono andati persi in una vastità di coincidenze e meccanismi caotici? Rimpiangere simili eventi sarebbe come rimpiangere uno spermatozoo che ha perso la corsa. Eppure.
Eppure il mondo è un punto di vista e non un assoluto, perchè non sono capace di guardarlo collettivamente: macina senza sosta ogni direzione alternativa, manda in frantumi ogni legame umano trasognato o potenziale, in favore di un decorso cronologico che è uno e solo uno, e non potrebbe essere altrimenti. La discriminante tra vita e non-vita è una lunga, sterminata serie di coincidenze.

Quale artigiano governerà mai un mondo del genere? Con che spirito si potrà mai solo assistere alla creazione, negando al proprio meccanismo la minima opera manutentoria? Non siamo orologiai, e nemmeno rotelle dell'ingranaggio: siamo influenti come un granello di polvere sopra la lancetta dei secondi.
Mi piacerebbe che due o tre cose fossero andate diversamente, nel corso di quell'incontro casuale: cambiarne tempo, spazio o dinamiche avrebbe scatenato una reazione tanto diversa quanto è diverso il carbonio composto come grafite da quello composto come diamante.
Più ci penso, più mi viene da uscire di soppiatto dalla lezione di astronomia, come nella poesia di Walt Whitman. 

lunedì 17 ottobre 2011

Nunc Dimittis

Prologo

Quando mi succede di viaggiare in aereo, prego in silenzio di non capitare nella fila dell'uscita d'emergenza; finirei per passare l'intero viaggio a trattenermi dall'impulso di spalancare il portello. Il portello degli aerei IMPLORA di essere aperto tanto quanto il frutto dell'albero della conoscenza implora di essere colto da Adamo. Se qualcuno o qualcosa ti dice «Puoi fare tutto ciò che vuoi, tranne...», all'improvviso non sei più libero.
Per inciso, sto rovinando a chi non l'avesse ancora letto uno dei punti chiave di “Survivor” di Palahniuk, dove il protagonista registra su scatola nera la storia della sua vita pochi istanti prima di schiantarsi con l'aereoplano su cui sta viaggiando.
Se fossimo tutti in caduta libera e il mondo fosse l'aereoplano, questa sarebbe la mia scatola nera.

Non sono mai stato un grande lanciatore di sampietrini, quindi mi attengo a quello che mi gratifica.
Cara scatola nera, qualche mese fa
scrivevo:

Io mi sono messo l'anima in pace. Questi staranno lì fino al 2013 o, più verosimilmente, fino al giorno in cui la gente non manifesterà sotto il parlamento perché non riesce più a comprare il pane. E ad essere onesti, quel giorno non mi sembra troppo lontano... il problema è che non ho ancora deciso se augurarmi che diventi realtà, perché non saprei bene come comportarmi.
Se avessi la pancia vuota, una famiglia in rovina e sapessi esattamente di chi è la colpa, cosa sceglierei di fare? Se la prospettiva fosse quella di perdere tutto, fino a che punto mi spingerei?
Un corteo non-violento?
Un sasso in faccia all'autorità?
Una bomba?
O forse, come la maggior parte dei miei concittadini e coetanei, sarei in bilico tra l'aggressività casuale e l'happy hour con aperitivo incluso-2-consumazioni-6-euro?
In questo periodo, ho ugualmente paura dei sessantenni sulle auto blu, dei ventenni con le molotov artigianali e dei pre-adolescenti con i cocktail con la cannuccia: siamo la stessa razza, la stessa specie in via di auto-estinzione, e nessuno di noi sarà mai l'artefice di una rivoluzione.

Qualche giorno fa,
scrivevo:

Quella di manifestare non contro Berlusconi sì o Berlusconi no, bensì contro un regime finanziario nel suo complesso, senza fare riferimento alle politiche dei singoli governi nazionali ma a soggetti come le banche centrali, le corporazioni, la supposta plutocrazia dell'uno per cento che ingrassa sulla tomba del restante novantanove... mi sembra sia la migliore idea per una manifestazione, anche radicale e fieramente arrabbiata, da un sacco di tempo a questa parte.
Quelle di questi giorni, in tutto il mondo, sono proprio manifestazioni internazionali contro un sistema marcio e si pongono l'obiettivo dichiarato di alterarne l'equilibrio.
La caduta di questo esecutivo sarebbe un giorno di gaudio e tripudio per questo Paese per una serie sconfinata di ragioni, e forse ci porterebbe un po' più vicini ad altre democrazie occidentali che si muovono in modo meno deleterio per rallentare la caduta. Ma pensare che se non governasse Berlusconi si risolverebbero i problemi psico-economico-politici di questo luogo infame è folle. La camera, il senato, Palazzo Chigi o Arcore non sono la patologia; sono solo sintomi.

Qualche ora fa,
scrivevo:

Dubito che a Luigi XVI, mentre saliva sul palco della gigliottina, fosse venuto in mente di provare a cavarsela dicendo alla folla «Uccidere è sbagliato!», o a Mussolini di arringare la massa sul punto di linciarlo con un discorso dal tono «La capacità di perdonare è una delle più grandi qualità dell'essere umano!».
Però uccidere è sbagliato; non è una convinzione etica soggettiva o mutevole a seconda del contesto, è una delle poche cose su cui tutti sono dannatamente d'accordo.
Su questa base, però, si appoggia anche tutta la retorica di queste ore, un perbenismo ipocrita e pompato che serve a dividere i manifestanti buoni da quelli cattivi. Non ho mai lanciato un sasso contro un poliziotto in vita mia e in tutte le manifestazioni a cui sono stato il mio momento di massima gloria consisteva nello scappare alle cariche. Sono dunque un manifestante buono? E, in ultima analisi, a che cazzo servo?
Gandhi diceva che tra un non-violento per vigliaccheria e un violento, è meglio il violento.
La mia più grande colpa è l'opulenza, la pigrizia e la codardia che alimentano il mio pacifismo di convenienza, ciò che credevo fosse un ideale importante è figlio delle dinamiche di consumo con le quali sono cresciuto.
Certo, è un peccato irredimibile ed è una condanna che condivido con il potere che, a parole, critico; ma almeno ho la decenza di riconoscerlo, guardarlo in faccia. E per giunta faccio meno danni dei poveri illusi che credono di attaccare il sistema con i sassi e le bastonate sui suv.
La mia vocina interiore è più molesta del solito, perchè intravedo negli assalti ai blindati le stesse dinamiche “da stadio” di chi inneggia alla lotta armata come se questo scenario fosse una finale di coppa. Le trovo così familiari e facilmente riconoscibili perché sono anche parte di me e albergano nella mia stessa personalità: la tav, il capitalismo, Berlusconi, la champions league, la Gelmini e l'ubriacarsi tutte le sere sono note dello stesso rumore bianco che risuona nel mio cervello, e non posso farci niente. Non conta cosa, dove, come e perché: conta essere parte di qualcosa. Qualunque cosa. 
Non penso che i metodi violenti, la guerriglia urbana siano da condannare per ragioni etiche; io ho le mie e le considero una priorità assoluta, persino più importante della mia libertà personale. Solo il tempo mi dirà se le mie priorità cambierebbero con meno soldi in tasca e senza un tetto sulla testa. Chi crede nella necessità di una rivoluzione (e io ci credo) deve fare i conti con le modalità storiche con cui se ne mette in atto una. Ma almeno ho la lucidità e la modestia sufficente a capire che una manifestazione come quella del 15 ottobre è controproducente e funzionale alla repressione.

Adesso,
tengo in pugno una scatola nera e aspetto il botto finale.
Per Kierkegaard l'angoscia è il modo in cui si manifesta in noi la possibilità. É il sentimento della possibilità stessa: la consapevolezza di quello che occorrerebbe fare per essere liberi.
Risucchio dell'aria fuori dall'aereo, maschere ad ossigeno che cadono, caos, urla.

sabato 8 ottobre 2011

Chi siamo, da dove veniamo, è pronto da mangiare?

Aspetto quel momento da sempre, ma quando ci sarò vicino dubito che mi troverò a dire «Finalmente!».
Il fatto è che la vita, per qualcuno che un giorno dovrà morire, non è facile. Mi capita di interrogarmi sul senso della mia angoscia verso un futuro, il mio, già in gran parte deciso: un periodo di tempo variabile e su cui non ho quasi controllo, poi un'eternità dentro una cassa sotto due metri di terra.
O forse all'interno di un vaso, con le sembianze di un mucchietto di cenere.
Non sono pronto a questo, ma non penso che lo sarò mai quindi tanto vale fermarsi un attimo e parlarne. Cosa vuol dire morire?

«Pulvis et umbra sumus, caduchi come foglie in autunno», direbbe qualcuno che ha frequentato le classi alte.
«Siamo piccoli, stupidi, incapaci e duriamo poco», direbbe qualcuno che ha frequentato le classi basse.
«Memento Mori è una massima di Sesto Properzio», direbbe qualcuno che non ha frequentato le classi.

I migliori sono sempre i primi ad andarsene, soprattutto se dall'altra parte li pagano meglio. Questa è una delle poche riflessioni che mi rassicura sulla mia probabile longevità.

Ho fatto davvero troppo poche cose nella vita per permettermi di pensare alla sua conclusione. Non ho mai montato la panna, per dirne una. Mai.

Trovo che i testi delle canzoni di Iggy Pop & The Stogees siano pieni di bellissime immagini e allo stesso tempo ricchi di un brillante senso dell'umorismo: in questo istante sto ascoltando “Search and Destroy” e il vecchio Iggy ha appena finito di cantare «I'm a streetwalking cheetah with a heart full of napalm», e se tutto questo non sembra aver nulla a che fare con la morte... è perchè non ne ha. È solo una bella immagine.
In fondo, una bella immagine è il massimo che possiamo permetterci, quando proviamo ad affrontare l'argomento.

Mi sento vecchio. Non vecchio, ma in qualche modo “già vissuto” e anche appena nato. Durerà a lungo? Diventerà più facile invecchiando? Queste domande hanno un senso per chi legge fuori contesto rispetto al rivolo di pensieri casuali di un cervello medio come il mio, oppure sono caotici come l'editoriale di un giornalista che oggi non sa come occupare le righe?
C'è un solo, autentico mistero nell'universo: i puzzle. Pensare allo spreco di interi pomeriggi, giornate, nottate passate ad incastrare frammenti di cielo, brandelli di monumenti celebri e schegge di panorami mi mette i brividi.
É terribile sacrificare tempo prezioso nella costruzione del mosaico che si ha di fronte a sé, per poi accorgersi che ci manca un tassello. In un'opera quasi completa, la prima cosa che salta all'occhio è proprio il buco. Nessuno mi conosce peggio di me stesso e comunque non mi piacciono i puzzle, io sono uno da Risiko.

Ho 22 anni. Quasi un quarto di secolo a parlare di cazzate autoindulgenti, di cui le righe qui sopra sono un rimarchevole esempio. Libri, compiti poco importanti da svolgere, compagnie più o meno interessanti e una cronica mancanza di ragazze. E ora? Che cosa mi/vi/ci aspetta? Non posso dirvelo, ma non è per aumentare la suspense e quindi le vendite.
Alcune cose, però, sono già decise: ad esempio, il protagonista del mio futuro sarò ancora io; non Batman, come voleva il caporedattore. Quanto al resto, ci stiamo lavorando. Manca ancora un po' di tempo, spero, all'ora X, e in quel tempo si possono fare un mucchio di cose: le ferie, per esempio.

In questo momento state leggendo. Chi vi dice che, invece di leggere, non avreste potuto pilotare un K66 a decollo verticale? Tutto è possibile e quasi tutto, per noi che possiamo permettercelo, è accessibile. La fetta di mondo nel quale vivo ha letteralmente la libertà di fare quello che vuole nella vita: nessuna grande guerra o grande crisi a bloccarci la strada, checché ne dica l'opposizione di sinistra.
Tutti moriamo, il punto non è questo. Il punto è provare a fare qualcosa che non sarà soggetto alle nostre stesse regole, qualcosa che non morirà mai; impresa praticamente impossibile, giusto Babbo Natale e i grandi artisti vi riescono. E sappiamo tutti che i grandi artisti non esistono.

Non si può pensare di scrivere una conclusione coerente per una pagina casuale: talvolta si scrive cercando di imitare la sincope ritmica degli eventi di una vita.
I meccanismi della casualità sono complicati a prima vista, ma in realtà piuttosto semplici: non ho mai sentito un essere umano venire al mondo dicendo «Tutto qui?», dunque presumo che l'esperienza del vivere sia qualcosa da farsi bastare, nella sua nebbiosa casualità. La vita dopo la morte, come la nebbia, si porta appresso il paradosso tautologico del “Se c'è, non si vede”, e come si fa allora a capire se c'è o non c'è, e quando arriverà?
Ed è poi così importante saperlo mentre si è ancora vivi? Se ci si riflette in modo razionale, il primo passo verso la vita eterna sta nel fatto che bisogna morire.
«Se prendiamo una linea temporale lunga abbastanza, il segmento della nostra durata nella storia si riduce a zero» diceva uno che, nemmeno fisicamente, somiglia molto a Schopenhauer.

lunedì 12 settembre 2011

E ora qualcosa di completamente diverso - La Trilogia!

In ogni trilogia che si rispetti, il terzo episodio è sempre il più brutto. E questa rubrica è ora giunta al suo terzo capitolo.
Per rispettare la suddetta legge universale, ho passato un pò di tempo a chiedermi quale poteva essere l'oggetto da recensire più adeguato a manifestare un senso generico di “bruttezza impellente”, e quasi subito mi si è palesata davanti la risposta.
Televisione.
Se cerchi qualcosa di brutto, novanta su cento è lì dentro.
La mia storia personale con la televisione è alquanto conflittuale. Da bambino sono cresciuto con una direzione morale precisa che mi impediva di guardare i canali mediaset: non un vero e proprio divieto, quanto più un'espressione di dissenso che la mia famiglia assumeva. Guardare un canale berlusconiano, a casa mia, era un po' come fumare una sigaretta: non certo illegale, ma nemmeno degno di approvazione.
Perciò, se mi veniva voglia di sbirciare una puntata di quel “Dragonball” di cui tutti gli altri bambini parlavano a scuola, dovevo farlo di nascosto.
Crescendo, questo divieto morale contro la mediaset si è attenuato; ma la stessa cosa è successa anche per il mio interesse verso “Dragonball”. Mi sono rapidamente reso conto che la televisione italiana è, molto sinteticamente, una noiosissima montagna di letame populista, dove giusto durante il tg di “Italia 1” si riesce a intravedere mezza tetta mentre nel resto del palinsesto dominano le moralette cattolico-perbeniste, la cronaca nera, i film con Steven Segal, le fiction parodiate da Boris e tutta questa specie di cose.
Ma nella stessa età in cui scemava il mio interesse per Dragonball, si innalzava la mia capacità di reperire con altri mezzi gli show televisivi che avrebbero potuto interessarmi. Nessuno dei quali, per inciso, era italiano: cosa avrei dovuto fare, impegnarmi per trovare su internet le repliche di “Ciao Darwin”?

Da un certo punto di vista, sono convinto che internet abbia liberato la televisione, l'abbia migliorata e spinto chi vi lavora ad impegnarsi per alzarne il livello. Il progresso qualitativo degli ultimi dieci anni di produzione televisiva americana è straordinario, e credo che l'esplosione di internet abbia avuto parecchio a che fare con questo cambiamento: se un canale satellitare per famiglie si permette di mandare in onda The Walking Dead ogni settimana, è anche grazie al download (legale ed illegale) che lo sostiene.
Questo discorso purtroppo è ristretto a ciò che conosco della televisione, ovvero il panorama di offerte che i canali satellitari americani garantiscono a chi sa come trovare ciò che gli interessa su internet, magari senza pagare troppo o senza pagare affatto. Per l'Italia, a mio parere, televisivamente parlando non c'è speranza o quasi: come in ogni altro ambito culturale e sociale, ci meritiamo quello che abbiamo e se è vero che dovremmo crescere come elettorato, dovremmo anche fuoriuscire dai sepolcri di immondizia sotto i quali, come pubblico televisivo, siamo seppelliti.
Ed anche per oggi ho fatto la mia tirata sinistroide. Dai dai dai che ce la giriamo (cit.)

Due o tre serie tv che mi hanno tenuto incollato allo schermo in questo paio di anni solari.

Mad Men
Il telefilm che più di ogni altro testimonia come sia possibile raggiungere un livello qualitativo straordinariamente alto, affrontare temi ambiziosi e complessi, raccontare un periodo storico in maniera tanto accurata quanto avvicente e far amare ogni secondo dello spettacolo. La storia della vita di Don Draper, pubblicitario newyorkese degli anni '60, e della compagnia per cui lavora; oltre ad aver inventato uno dei personaggi più affascinanti e complessi della storia della televisione, Mad Men è in grado di descrivere, attraverso le vicende dei suoi personaggi, l'evoluzione della società americana negli anni '60 e di presentare una ricostruzione storica che fa invidia a gran parte del cinema moderno.
Qui sotto, uno spot particolarmente ispirato.


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The Walking Dead
Impossibile, per un blog con questo titolo, non spendere due parole sul miglior ritorno degli zombie sullo schermo, televisivo o cinematografico che sia, da anni a questa parte. Il creatore della serie è Frank Darabont, celebrato regista americano famoso per robe quali “Le ali della Libertà” o “The Mist”, e il telefilm è tratto da una serie a fumetti a tema zombesco (o zombiesco? boh) che non si limita a far paura allo spettatore, ma si applica nell'approfondire ciò che accade all'umanità nelle sue condizioni più estreme, quasi apocalittiche.
Qui sotto, un trailer della seconda stagione (in onda tra un mese).


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American Dad!
Di recente ho letto un'espressione, nel parlare dei Simpsons (che vanno in onda ancora oggi ogni settimana), che trovo particolarmente azzeccata: “accanimento terapeutico”.
I Simpsons erano certamente influenti e provocatori un tempo, ma ora continuano stancamente senza avere davvero qualcosa di interessante da raccontare. “American Dad!” è un cartone animato che sembra replicare lo stesso format (famiglia media americana usata per fare satira sugli USA in generale), ma è più feroce, cinico, nichilista e dannatamente divertente di quanto i Simpsons siano mai stati.
Il creatore dello show, Seth McFarlane, è lo stesso che ha inventato i ben più apprezzati Griffin ed è la testimonianza vivente di come internet possa far sopravvivere una serie tv dichiaratamente anti-repubblicana in un canale iper-conservatore come la Fox. Chi ha il coraggio di fare trenta minuti di televisione in cui si mette in scena il Giudizio Universale come un film d'azione, o si fa un lungo numero musicale sul movimento gay di destra merita, da parte mia, credito illimitato.
Qua sotto 50 secondi sufficienti ad esprimere la genialità random di questo cartone.


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Community
Community è una delle pochissime cosiddette “sit-coms” che io abbia mai digerito. Ma il fatto è che non solo la digerisco perfettamente, bensì trovo che sia la singola cosa più divertente in tv in questo momento. Il fatto che sia molto poco seguita e rischi ogni anno di essere cancellata per gli ascolti troppo bassi è semplicemente una conferma della sua qualità. Gli episodi girano intorno alla vita quotidiana di un gruppo di studio in un Community College americano, lo stereotipo dell'università pubblica di livello molto basso dove per 5 crediti si può frequentare un corso di vela su una barca ferma dentro un parcheggio. L'enorme virtù di Community risiede nel suo rimescolare la cultura pop e prendersi in giro da sola in modo quasi meta-televisivo (la prima e ultima volta che userò questa parola nella mia vita, promesso).
Nel cast spiccano uno dei miei esseri umani di sesso femminile preferiti al mondo, di nome Alison Brie, e un attore leggendario come Chevy Chase.
In basso, una delle molte scenette completamente improvvisate che contraddistinguono la serie.



lunedì 29 agosto 2011

La sindrome di Marty McFly


Quest'estate ho imparato che le apparenze ingannano.
Ad esempio, come facciamo ad essere sicuri che chi ci siede accanto sia davvero ciò che dichiara di essere? Potrebbe essere un alieno, per quanto ne sappiamo. La verità è che dovremmo imparare a chiedere, a lavorare per la verità, prima di trarre giudizi.
Dovrei cominciare a chiedere alle persone se sono alieni. Se mi rispondono di no, chiederò loro se sono sicuri. E se qualcuno negherà nuovamente, i casi sono due: o è un terrestre, o è un alieno dannatamente furbo.
Per inciso, quest'introduzione è assolutamente inutile. Era il caso di scriverla?
No, decisamente no. Il silenzio è d'oro, ma, d'altra parte, anche le parole hanno un prezzo. Che per quanto mi riguarda dipende dal miglior offerente.
Chi offre di più per farmi smettere di scrivere?

(ben tornati su queste fastidiose sequenze)
Frank il coniglio invisibile, C.E.O. del blog

È il 2011 e ancora non sono state inventate le sole due cose di cui davvero mi importava: macchine volanti e viaggi nel tempo.
Tra quattro anni saremo nel 2015 e il 1985, l'anno di uscita di “Ritorno al Futuro”, sarà tanto vecchio per noi quanto lo era il 1955 per i protagonisti di quel film.
A voi non fa venire i brividi? Non vorreste rubare lo skateboard a Marty McFly, salire sulla DeLorean e fare un salto nel 1985 per suonare... che so, Bizarre Love Triangle ad un ballo scolastico?

Sfortunatamente, non possiedo una macchina del tempo; ci sto lavorando, ma sono ancora piuttosto lontano e non so quanto una laurea triennale in filosofia potrà portarmi vicino alla meta. Tuttavia, per ingannare l'attesa e prepararmi all'eventualità, ho pensato di fare una lista di cose scomparse, estinte o appartenenti al passato che vorrei veder riapparire in futuro.

Le dieci cose del passato che vorrei veder tornare:

#10 I film horror come li facevano negli anni '80

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#9 George Orwell, giusto per sapere cosa avrebbe scritto sul “mondo di oggi”.










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#8 Michael Jordan che gioca a basket.


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#7 L'Ottavo Nano


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#6 Un'alternativa al modello economico-sociale dominante nelle società del mondo. Ad esempio, una cosa tipo l'anarchia, in un'accezione del termine simile a questa:

« Aspetterò domani, dopodomani e magari cent'anni ancora finché la signora Libertà e la signorina Anarchia verranno considerate dalla maggioranza dei miei simili come la migliore forma possibile di convivenza civile, non dimenticando che in Europa, ancora verso la metà del Settecento, le istituzioni repubblicane erano considerate utopie. E ricordandomi con orgoglio e rammarico la felice e così breve esperienza libertaria di Kronstadt, un episodio di fratellanza e di egalitarismo repentinamente preso a cannonate dal signor Trotzkij. »
Firmato: Fabrizio de Andrè.
Ah, a proposito:

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#5 Fabrizio de Andrè, perchè secondo me in paradiso si sta annoiando


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#4 Un sacco di musica incomparabilmente migliore di quella attuale. Tipo questa,


o questa:


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#3 Alessandro Magno. Sì esatto, Alessandro Magno. Ovviamente a patto che gli si offra la possibilità di conquistare il mondo e governarlo.














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#2 Il Torino in serie A e capace di vincere campionati.












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#1 I dinosauri






lunedì 4 luglio 2011

Fare un solitario alla roulette russa

Sapete , credo di aver perso (metaforicamente parlando) molte battaglie nella mia vita. Ma credevo di non aver mai perso traccia della guerra. In questo periodo mi domando sempre più stesso dove sia finita, dove si sia spostato il fronte e se di guerra ve ne sia davvero una.

Non sono mai stato il genere di persona capace di mostrare il coraggio e la fermezza necessari per decidere, senza condizionamenti esterni, di collaborare nel forzare un blocco della polizia, lanciare sassi contro agenti anti-sommossa e ricevere ventate di lacrimogeni in faccia. Persino nei momenti di somma rabbia e coinvolgimento emotivo, non sono mai riuscito a saltare adeguatamente dal pensare di agire all'agire effettivamente.
Sono un pacifista, o quantomeno il pacifismo mi é sempre sembrata una cosa molto più sensata delle apologie della violenza, in ogni sua forma. Se ti siedi un secondo e ci pensi, la violenza è praticamente sempre una scelta demenziale e controproducente: basta usare una frazione di cervello per capire che la pena di morte é indifendibile o che la tortura é immorale.
D'altra parte, chi lo sa se sono pacifista perchè ci credo davvero o solo perchè mi viene più facile: non ho mai dato un pugno a nessuno in vita mia, ma questo dipende dal fatto che non sono mai stato costretto a fare a botte, non che lo ritenga sbagliato a priori. Cosa ne sarebbe di tutti i miei supposti valori, se un giorno fossi direttamente coinvolto in una situazione che richiede, come estrema soluzione, l'uso della violenza?
Prospettiva tutt'altro che astratta, visto che questo post (post cosa? Post mortem, post-it? No, post e basta) é scritto con l'intenzione di chiarirmi le idee in merito al “casino della no-tav”, e con l'aspirazione di elaborare una posizione in cui mi trovi a mio agio, tra il non poter passare sopra le modalità della manifestazione ed il pensare che se una cosa é tanto delegittimata da un ampio movimento di protesta forse in fondo non si dovrebbe andare avanti a farla.
Io non sono no-tav; ciò non significa che sia pro-tav, e per il momento la mia opinione in merito é confinata dentro questo comodo limbo di indecisione. Non sono abbastanza informato per parlare con cognizione di causa e non lo sono di certo a tal punto da decidere di schivare cariche e lacrimogeni pur di dimostrare come la penso. Mi deprime non avere più quel genere di entusiasmo, quando fino a pochi mesi fa ero disposto a tutto o quasi per unirmi al primo coro di sdegno di cui mi andava a genio il suono.

Credo, ad un certo punto, di essermi perso per strada: forse ho tenuto gli occhi chiusi per qualche istante di troppo, ma improvvisamente i contenuti del dibattito politico si sono trasformati in «Berlusconi merda» o «È vero perchè lo ha detto Beppe Grillo». Le battaglie che valeva la pena affrontare sono drasticamente scese di numero ma il mondo continua a fare piuttosto schifo. La retorica del “ribelle senza una causa” comincia a suonare convincente, mentre le stesse masse nelle quali provavo piacere a confondermi si buttano a pesce dentro sfilate contro Israele o contro la Tav.
Ecco, la questione della tav é un po' come la questione del conflitto israelo-palestinese: nessuno ci capisce davvero un cazzo, ma c'è una massa accogliente di persone che ti convincerà di una cosa o dell'altra. Il mio problema resta: chi ha convinto tutte queste persone? È legittimo auto-proclamarsi “di sinistra” e poi non avere le idee chiare, pensare che dichiarare il proprio odio verso Israele sia incredibilmente stupido o essere tiepidi nei confronti della protesta contro la tav?
Sono davvero tutti più intelligenti, socialmente impegnati ed informati di me sull'argomento, oppure preferiscono mostrare di appartenere a qualcosa invece che restare ribelli senza una causa?
Prendere a sassate la polizia in un nome di un ideale può essere legittimo, se quell'ideale è una roba come... che so, la libertà o la liberazione dal fascismo. Ma può esserlo se la questione riguarda un treno?
Dovrei essere contento se una fetta rilevante di opinione pubblica è accesa da tematiche serie, come il dibattito sul nucleare, l'acqua pubblica o l'impatto ambientale dell'alta velocità in una valle, e dovrebbe farmi piacere che la gente trovi le motivazioni per uscire di casa, manifestare e, di quando in quando, fare a botte. Ma l'ultimo punto proprio non lo digerisco, perchè sento che non ne vale quasi mai la pena.

Non è mai facile scrutare dentro un movimento che in larga parte è pacifico, civile e moderato e decifrarne gli elementi che lo fanno degenerare. Serve perspicacia e allenamento, ma bisogna assolutamente farlo. Il mondo è pieno di catastrofi potenziali da evitare, battaglie degne di essere combattute, impegni seri da prendersi, e la mia generazione ha di fronte a sé uno sterminato campo di battaglia, lungo e largo quanto il maledetto pianeta.
Pur con tutte le mie indecisioni, i miei dubbi e la mia pigrizia nel prendere posizione, penso di avere un significato e un ruolo da recitare. Sono parte attiva di ciò a cui scelgo di partecipare, ma non sarò mai un mezzo; un individuo autonomo e senziente non dovrebbe mai esserlo, né dovrebbe esserlo una generazione.
Assumersi responsabilità politiche e sociali per il gusto di farlo, inseguendo la finta virtù che deriva dall'appartenere a qualcosa, è stupido e masochistico quanto fare un solitario alla roulette russa, e qui ho perso ufficialmente le redini della mia metafora. È la stessa frustrazione pseudo-adolescenziale che ti fa sentire quello stupido, artificiale senso di libertà: la felicità nell'essere una voce dello stesso coro.