domenica 22 aprile 2012

Facciamolo come a Bangkok


L’altro giorno riflettevo...
no no no, scusate, fermi tutti. Prima la sigla:


L’altro giorno riflettevo sul significato dell’antipolitica di cui si parla in questo periodo. Riflettevo per modo di dire: in realtà stavo battendo violentemente il cranio contro un muro di cemento armato, ricordando che, soltanto  4-5 anni fa, il movimento a cinque stelle mi sembrava un’ottima idea. 

Anche per via del valore che attribuisco all’idea stessa di trovarmi in minoranza (sono vegetariano, tifoso del Toro e protestante, se fossi anche gay avrei fatto jackpot), non potevo non subire il fascino di chi, fin dalle sue origini, si definiva come antipolitica.
A essere onesti, e in parziale difesa del me stesso diciottenne, il movimento fondato da Beppe Grillo ha espresso alcune posizioni che tutt’ora condivido e sostengo: i discorsi sull’energia, lo sviluppo sostenibile e l’ambiente, le campagnie di informazione sul livello di corruzione e criminalità della politica e l’insistere sul concetto di “politico come nostro dipendente” sono argomenti che considero sacrosanti e inattaccabili. Purtroppo, un movimento perde di credibilità e integrità quando i suoi aspetti più universalmente positivi sono mescolati alla melma populista da quattro soldi, a una disumana valanga di contenuti non condivisibili presenti su quella che dovrebbe essere la piattaforma ufficiale (il blog di Beppe Grillo) e a una propaganda no-tav che degenera costantemente nell’incitamento alla violenza.

digiunando pubblicamente a staffetta?

In estrema sintesi, ora come ora il movimento a cinque stelle mi sta parecchio sulle palle, e sono un pò affranto che il dibattito sull’idea di antipolitica in Italia debba fare riferimento a Beppe Grillo e le sue stronzate.
Per me, il simbolo dell’antipolitica è un uomo che con Beppe Grillo non ha nulla da spartire: si chiama Jena Plissken, Snake in inglese, ed è la più azzeccata e brillante incarnazione cinematografica del mio eroe (e personale punto di riferimento quando ho voglia di lanciarmi in un delirio anarcoide) John Carpenter.

ho sentito un "cazzo, sì!" là in fondo?

Se dovessi spiegare a un grillino cosa intendo per antipolitica, prima di tutto gli farei vedere Fuga da Los Angeles. Se a diciotto anni avessi dato retta a Plissken (chiamami Jena!) invece che ai discorsi del Vaffanculo Day, ora il progresso della mia personalità sarebbe un pochino più avanzato; ma procediamo con ordine: chi è Jena? (mi chiamo Plissken!) e di cosa parla Fuga da Los Angeles?

Nel mio percorso di formazione di un’identità politica, ho sempre prestato particolare attenzione all’elemento dell’anticonformismo. In un certo senso credevo (e forse un pò credo ancora) che dubitare delle idee e dei comportamenti prevalenti sia sempre una buona idea. Del resto, Brecht diceva che il pensiero dominante non è altro che il pensiero delle classi dominanti e già questo può giustificare chi si qualifica come anticonformista, o aspirante tale.
Quando però si comincia a invecchiare un pochino, e i propri ideali vengono messi in discussione, l’anticonformismo passa attraverso una lente di osservazione inedita e comincia a somigliare al suo opposto. Entrambe le idee assumono le sembianze di etichette pop ben confezionate e vendibili, due canali di sublimazione organizzati per incanalare il “pensiero dominante” più conveniente del momento: il conformismo più elementare e confortevole, l’anticonformismo più contorto ma potenzialmente più soddisfacente ed eversivo.

ok, però vai avanti

Ma perchè parlare in termini così astratti,  se il soggetto è l’esigenza di antipolitica che sembra crescere in Italia?

Perchè la vera antipolitica deve spazzare via sia conformisti sia anticonformisti; devono perdere tutti, come direbbe Plissken (chiamami Jena), il sistema deve spegnersi senza che un nuovo capo prenda il posto di quello vecchio.
In ogni rivoluzione c’è sempre un difetto, ed è un difetto lungo cinque lettere: gente

Nell’essere maturato quanto basta per vedere conformismo e  anticonformismo per quello che sono veramente, due facce della stessa medaglia che prendono entrambe troppo in considerazione la massa e la contemplano come necessario punto di riferimento per saggiarne la vicinanza o il distacco, non posso non stringere la mano con gratitudine al vecchio Jena (mi chiamo Plissken) ed inchinarmi davanti al mio personale libro rosso dell’antipolitica, Fuga da Los Angeles.

Il film, a metà strada tra un sequel e un remake scena per scena del primo capitolo Fuga da New York, lancia un messaggio metacinematografico e spietato, nel quale John Carpenter dimostra che, quando gli studios ti offrono montagne di soldi per replicare una formula e vendere biglietti del cinema e pupazzetti senza prestare attenzione al contenuto, la cosa più intelligente da fare è prenderti i soldi e fare quello che ti pare.
Con questa premessa, l’intenzione originale di esaltare il mito del suo personaggio, diventato con il tempo un’icona alla Rambo, Terminator e simili eroi d’azione destrorsi figli dell’era Reaganiana, scompare in favore di una decostruzione dissacrante: invece di approfondire la mitologia di Jena (Plissken!), Carpenter si diverte a smontarlo, quasi come se il personaggio stesso si opponesse alla sterile riproposizione della formula che aveva funzionato prima, e facesse capire di essere stanco. Plissken (Jena!) si siede quando dovrebbe correre, rallenta quando dovrebbe accelerare e, se c’è una sfida da vincere o una prova da superare, trova il modo meno eroico e più anticlimatico per farlo.
L’(anti)eroe interpretato da Kurt Russel deve decidere se sposare la causa dei potenti o dei rivoluzionari, se permettere o impedire il crollo della civiltà occidentale in favore di un nuovo ordine governato dal “terzo mondo”. Trovatosi in mezzo ad una specie di fuoco incrociato tra il presidente degli Stati Uniti (che sembra molto Ronald Reagan) e il capo dei rivoluzionari (che è un pò un incrocio tra Che Guevara e Bossi) , l’unica cosa ragionevole è segnare una sconfitta generale, universale e definitiva per il genere umano, un ritorno al un’anarchia quasi medievale che metta tutti sullo stesso piano. L’antipolitica consiste nel fare la terza cosa tra due decisioni da prendere, con la maturata consapevolezza che magari ci sono davvero i buoni e i cattivi, ma è molto più probabile che siano tutti cattivi.


Lo stato della politica in Italia è quello che è: chi ci governa non ha la minima idea o il minimo contatto con il mondo reale che dovrebbe amministrare. Gli stessi politici, nella loro quasi totalità, sono più un cancro che una cura e contribuiscono alla messa in scena della nostra rovina collettiva. Aspiriamo tutti ad un eroe carpenteriano che risolva le cose in nostro favore ma... la verità è che Jena ci guarderebbe in faccia e ci tratterebbe come colpevoli, più che come vittime. E avrebbe ragione. 
Berlusconi non si è eletto da solo, Grillo è libero di sparare cazzate perchè c'è chi lo sta a sentire e, se qualcuno comincia ad avere problemi con la Lega Nord, avrebbe potuto pensarci vent'anni fa prima di farli diventare così potenti. 
Avremmo potuto fare qualcosa invece di fondare un’opposizione inutile e disperatamente poco laica. Avremmo potuto manifestare contro  questo accumulo di privilegi, invece di preoccuparci solo del destino della Val di Susa. Avremmo potuto spegnerli... avevamo il telecomando per farlo. Ma invece di fare come Jena, lo abbiamo consegnato all’antipolitica più finta e manipolatoria mai esistita: abbiamo scelto l’anticonformismo più conformista che potessimo trovare.

Benvenuti nel regno della razza umana.


p.s. secondo tentativo! Chi indovina a cosa si riferisce il titolo vince un pupazzetto di Jena Plissken.





domenica 1 aprile 2012

Perché?

Buonasera bambini!
Questo blog (una brutta parola che voi non dovete usare mai) ha deciso di pubblicare il suo primo post (un’altra brutta parola che voi non dovete usare mai) dedicato all’infanzia.
Non sono mai stato bravo ad esprimermi in maniera “family oriented” e politicamente corretta, quindi, per non correre rischi e mantenere questo scritto degno di bollino verde, applicherò un’autocensura che consisterà nel coprire termini, espressioni e contenuti inappropriati con un bel BEEEEEEP.

Allora: lo scorso post avevo inaugurato su questo BEEEEEEP di blog una BEEEEEEP nuova rubrica chiamata “FAQ” (oppure “BEEEEEEP” nel caso ci fossero bambini che parlano inglese) che consiste nel farmi delle domande da solo. Lo so, è un pò un’idea del BEEEEEEP ma non posso farci niente: a quanto pare, la mia fantasia ha una data di scadenza e oltretutto BEEEEEEP BEEEEEEP non è più al governo e io non ho più un BEEEEEEP da scrivere.

Quando penso a domande interessanti da fare penso a voi, bambini. In particolare, all’attitudine specifica dei bambini ad essere narcisisti e totalmente egocentrici nelle cose che hanno da dire, ma alquanto analitici e capaci di scendere in profondità quando cominciano a farti domande. Exempli Gratia:

Leo Ortolani lo spiega sempre meglio

Non ho molte occasioni per parlare con bambini (principalmente perché io BEEEEEEP i bambini, li BEEEEEEP dal profondo del mio cuore e cerco sempre di girarci lontano altrimenti finirei per BEEEEEEP BEEEEEEP BEEEEEEP il BEEEEEEP del BEEEEEEP). Il problema con i bambini è che non accettano una tua risposta a un certo punto: non capita mai di sentirli dire “ah, okay, ora ho capito” ma insistono in questa folle decostruzione al termine della quale non sai più nemmeno tu chi sei e il discorso diventa strano ed assurdamente astratto: perché, perché, perché...

In effetti, da bambino, cascavo anch’io molto spesso nel loop dialettico del “perché” con il mio interlocutore del momento. È una pratica che anche ora che sono più o meno cresciuto continua ad affascinarmi e incuriosirmi per via del suo potenziale teoretico.

Una delle forme di “ragionamento filosofico” più antiche al mondo è il dialogo. Il più famoso esponente di questa forma letteraria è sicuramente Platone, che però, come il sottoscritto, evidentemente non ha mai avuto una conversazione con un bambino in vita sua. Una delle tante cose che io e Platone abbiamo in comune, bambini.
Nei dialoghi di Platone, di solito, ci sono Socrate e il suo interlocutore che discutono del tema che il filosofo intende trattare nel suo scritto. Il problema è che il dialogo si svolge quasi sempre così:

Socrate: blablablablabla, sei d’accordo?
Interlocutore: sì.
Socrate: e quindi, blablablablabla. Ne convieni?
Interlocutore: ah-ah.
Socrate: di conseguenza, possiamo dire che blablabla. Giusto?
Interlocutore: boh, se lo dici tu.

E così via. Ora, io sostengo che, se sostituissimo l’interlocutore di Socrate con un bambino qualunque, i risultati sarebbero molto più interessanti. E visto che io non ho niente di meglio da fare (e se voi mi state leggendo neanche) direi che potremmo sfruttare la nuova rubrica per questo esperimento: cercare di scrivere un vero dialogo platonico. Uno interessante. Uno in cui c’è Socrate che sta parlando con un bambino.

Siete contenti?
E non rispondete BEEEEEEP, che i vostri genitori vi sentono e se la prendono con me.

Le FAQ – edizione per bambini

Da dove cominciare? In fondo non ho ancora scelto un tema di cui...
-          Perché?
Ah, abbiamo già cominciato? Okay, non avevo capito. Perché non ho scelto un tema? Perché ero qui che scrivevo e...
-          Perché?
Perché... perché non ho nient’altro da fare stasera.  
-          Perché?
Perché... non avevo tanta voglia di uscire.
-          Perché?
Perché piove.
-          Perché?
Beh, c’è dell’acqua che sta scendendo dal cielo.
-          Perché?
Perché era dentro una nuvola.
-          Perché?
Le nuvole si formano quando... c’è vapore che sale in aria. Qualcosa del genere.
-          Perché?
Beh perché... sai, non lo so. Non ne ho idea.
-          Perché?
Perché... perché sono stupido. Okay? Sono stupido.
-          Perché?
Perché non ho fatto attenzione a scuola durante la lezione di scienze, okay?
-          Perché?
Perché ero piccolo e pensavo ad altro, e in quel momento non me ne fregava niente di imparare come nascessero le nuvole.
-          Perché?
Perché... perché mi distraggo facilmente, non ho una grande morale del lavoro e del faticare per ottenere risultati nella vita.
-          Perché?
Perché ho una bassa autostima e penso che non combinerò mai niente di buono, okay? Ecco perché!
-          Perché?
Ho uno scarso senso pratico, non ho un dono, un particolare talento di cui vado fiero.
-          Perché?
Che ne so... forse sono stato educato male, non ho avuto una guida precisa e ho sempre avuto tutto facile nella vita... non ho mai dovuto lottare per un pasto caldo o un tetto... cose così.
-          Perché?
Perché sono un privilegiato.
-          Perché?
Perché sono nato in un posto in cui, in confronto alla maggior parte del mondo, sono benestante e fortunato.
-          Perché?
Perché viviamo in un sistema fondato sulla disuguaglianza e la sproporzione nella distribuzione delle risorse.
-          Perché?
Perché l’umanità è fallibile e ha eretto questa struttura intrinsecamente spietata.
-          Perché?
Perché a nessuno gliene frega un BEEEEEEP degli altri, tutti pensano solo a sè stessi.
-          Perché?
Perché la legge morale dentro di me è una bella immagine, ma in fondo è solo una favoletta. La morale ha un peso marginale nelle scelte quotidiane che ognuno di noi compie.
-          Perché?
Perché è quello che penso. È la cosa che mi pare più credibile.
-          Perché?
Perché forse sono un pò cinico su queste cose.
-          Perché?
Perché... non lo so, forse è perché sono raramente felice e soddisfatto di come stanno le cose... anche se in generale mi gira tutto abbastanza bene. Sono anche un ingrato, oltre che un privilegiato.
-          Perché?
Perché sono una brutta persona.
-          Perché?
Sono nato così.
-          Perché?
Non lo so. Nessuno può sapere perché nasce come nasce.
-          Perché?
Perché la conoscenza umana ha dei limiti.
-          Perché?
Perché siamo esseri finiti.
-          Perché?
Perché se fossimo infiniti saremmo Uno, mentre invece siamo molti.
-          Perché?
Perché chiunque o qualunque cosa sia all’origine della realtà, ha fatto in modo che sia così.
-          Perché?
Perché evidentemente pensava che fosse la cosa migliore.
-          Perché?
Perché se fossimo stati uniti a Dio, non ci sarebbe differenza tra Creatore e Creato.
-          Perché?
Beh perché alcune cose sono ed altre non sono.
-          Perché?
Perché le cose che non sono non possono essere!
-          Perché?
Perché altrimenti niente sarebbe! Non puoi pensare che niente che non è sia e tutto ciò che è non sia!
-          Perché?
Perché sennò ci sarebbe ogni tipo di BEEEEEEP, giraffe con sei colli e unicorni con quattordici tette e scimmie con le ali e nel mondo non c’è posto per tutto questo, okay?
-          Perché?
Oh, vai a fare in BEEEEEEP, tu, brutto piccolo BEEEEEEP!

Un pochino, dentro di me, ho sempre sperato che il Fedone, il Teeteto e la Repubblica si concludessero così.