mercoledì 25 maggio 2011

E ora qualcosa di completamente diverso - Il ritorno

Sto pensando di promuovere «E ora qualcosa di completamente diverso» al rango di rubrica fissa; un pò come quella su come salvare il mondo, ma più utile.
In effetti, un blog (segue suono gutturale di bile che sale) che si rispetti non può non riservare un angolino per le recensioni. Soprattutto se ciò significa togliere spazio alle deliranti elucubrazioni pessimistiche che ogni tanto si manifestano qui sopra, spesso anticipate dall'apparizione di un invadente coniglio immaginario.

Un paio di film visti tra l'inizio 2011 e il 34esimo anniversario dell'uscita al cinema di Guerre Stellari:

Super, di James Gunn
Decisamente il mio film preferito di questa prima parte di anno. Il lavoro precedente di James Gunn, un horror a bassissimo budget di nome Slither che non si è filato nessuno, era già un mezzo capolavoro; con Super, il regista produce un'opera complessa, disturbante e spudoratamente provocatoria, ma mai in modo fine a sé stesso.
Mascherato da commedia sui supereroi, con annessi personaggi strambi che si comportano in modo buffo, Super è di fatto un'indagine cruda e realistica sulla psicologia umana, oltre che un discorso tutt'altro che banale su cosa significhi “vocazione religiosa”. In cosa si distinguono effettivamente una discesa nella follia, un comportamento sociopatico da una “chiamata del Signore” e un desiderio spontaneo di fare del bene?
Il genio di Super sta dunque nel discorso quasi filosofico che è in grado di imbastire, già a partire dalla sua premessa. Ma è anche la messa in scena, pur nella ristrettezza del budget del film, ad essere qualcosa di assolutamente originale ed affascinante: l'estetica da fumetto e da cartone animato diventa improvvisamente minacciosa, capace di sconvolgere con esplosioni di violenza surreale. In sostanza, Super è cultura pop che si mescola a disquisizioni psicologiche e teologiche; personalmente non potrei chiedere di meglio da un film.


Four Lions, di Christopher Morris
Four Lions sembra un film scritto dai Monthy Python per il genere di umorismo che contiene, sembra scritto dal miglior Ken Loach per la denuncia sociale e i temi che è in grado di portare avanti e sembra scritto da Edgar Wright per il suo tono grottesco e al contempo credibile. Invece è scritto e diretto da tal Chris Morris, alla sua opera prima, ed è una commedia deliziosa e molto divertente, oltre che un film piuttosto coraggioso nel suo messaggio e nel modo di comunicarlo.
La storia racconta le imprese tragicomiche di un gruppo di giovani inglesi che hanno abbracciato la causa fondamentalista islamica, e tentano di organizzare un attentato: gli intenti satirici sono immediatamente evidenti, ma l'atto di accusa che il film porta avanti non impedisce all'autore di creare personaggi complessi e caratterizzati in modo perfetto: per quanto si comportino in modo assurdo e le conseguenze delle loro azioni diventino sempre più disastrose, non manca un sentimento di empatia e coinvolgimento nei loro confronti, come solo un personaggio ben scritto può suscitare.


Drive Hangry, di Patrick Lussier
Okay. Ho esordito con recensioni di due film dalle indubbie pretese autoriali ed ora posso smetterla di fingere gusti più raffinati di quelli che ho, e parlare di un film in 3D con Nicolas Cage che spara.
In realtà non c'è troppo bisogno di parlarne per convicervi a vederlo: Drive Hangry (letteralmente, “Guidare incazzati”) è un filmaccio d'azione di serie B in cui Nicolas Cage deve salvare sua nipote dalle grinfie del Demonio e del suo ragioniere, interpretato magistralmente da William Fitchner. Del cast fa parte anche la bionda dell'ultimo film di Carpenter, e questo conferisce ulteriore credito al tutto. 

L'operazione del film è riuscita a metà: i presupposti per esagerare, cadere nel trash e fare qualcosa di molto divertente sono tutti al loro posto, ma molto dell'umorismo di cui un prodotto simile avrebbe bisogno non è all'altezza della situazione. D'altra parte, ruoli del genere in mano ad attori come Cage e Fitchner sono sempre una buona idea, ma l'impressione è che lo stesso materiale in mano ad un regista più consapevole e dalla più acuta sensibilità trash (alla Rodriguez, per esempio) avrebbe dato vita ad un film memorabile.


Enter The Void, di Gaspar Noé
Il film è del 2009, ma inedito in Italia; l'ho dunque recuperato solo da poco, dopo aver letto commenti entusiastici che lo trattavano praticamente come il miglior film di tutti i tempi. Per quanto esagerate, quelle recensioni non erano troppo lontane dalla realtà: nel guardare Enter the Void, ho avvertito sensazioni simili a quando vidi Requiem for a Dream per la prima volta; uno dei paragoni più lusinghieri che potrei mai fare.
Prima di tutto, ho pensato che mi trovavo di fronte ad un'opera d'arte, ad un film di impatto fortissimo e con idee visive straordinarie. In secondo luogo, ho capito immediatamente che i suoi contenuti erano di quelli che “tengono compagnia per un pò”, infastidiscono e sono digeriti a fatica.
La storia ruota intorno al rapporto tra un fratello e una sorella, lui spacciatore e lei spogliarellista, e alla loro vita insieme a Tokio; la narrazione è frammentaria e si articola in un viaggio all'interno dei ricordi del protagonista.
In realtà è davvero impossibile separare ciò che il film racconta dal modo in cui lo fa: in entrambi casi, gli elementi fondamentali sono l'allucinazione, lo straniamento e la percezione alterata della realtà. Enter the Void è quasi ipnotico nella modalità espositiva, parla più per immagini che per dialoghi ma usa in modo notevole anche la musica. Non si trattiene nell'essere esplicito e talvolta estremo, ma non l'ho mai trovato volgare o gratuito: le scelte su cosa mostrare e cosa lasciare sullo sfondo sono coerenti con il film ed i suoi contenuti. Sicuramente non è un prodotto per tutti: per quanto mi sia piaciuto credo che possa arrivare in modo differente, e drasticamente peggiore, a sensibilità diverse dalla mia.
Qui sotto i suoi titoli di testa, decisamente originali ma anche estremi e frastornanti, un po' come é Enter the Void nel suo insieme. 


domenica 8 maggio 2011

E ora qualcosa di completamente diverso

Alleggeriamo un pò i toni, che sennò i miei lettori (lettori? Ahahah!) si lamentano.

Alcuni libri letti tra l'inizio del 2011 e la morte di Bin Laden (morte di Bin Laden? Ahahah!)

Stephen King – Just after sunset

13 storie brevi scritte da King in gioventù e precedentemente pubblicate su giornaletti locali o riviste semi-sconosciute. Spesso per Stephen King vale l'equazione « scritti giovanili = roba più ispirata della sua carriera », e questo rende Just After Sunset una raccolta meritoria di essere recuperata. Mi sono divertito parecchio a leggere di donne che si svegliano in mezzo ad incidenti ferroviari circondate da cadaveri e sconosciuti minacciosi, sogni profetici di coppie di mezza età in crisi, gatti che arrivano dall'inferno e tutta questa specie di cose. 
Aggiungo una considerazione personale, per la quale i veri fan di Stephen King potrebbero sentire la necessità di dovermi uccidere. Non trovo difetti nel suo modo di scrivere, se non uno che spesso si rivela grosso come una casa: la prolissità. Leggendo La Casa del Buio, ti domandi se ne scorgerai mai la fine o se sarà il libro a seppellirti per primo. Se la Torre Nera fosse durata tre libri di meno, sarebbe stata un capolavoro e persino un libro meraviglioso come It avrebbe giovato di qualche taglio. Per questo trovo il formato del racconto breve particolarmente adatto a King e alle sue indubbie qualità narrative; Just After Sunset non raggiunge forse i picchi di Tutto è Fatidico, ma si fa leggere ed è ampiamente godibile. 
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Bryan Lee O'Malley – Scott Pilgrim vs The World

Ora: io vorrei tanto fare lo snob fichetto ed esordire con il classico, ma sempre funzionale, “Il fumetto è meglio del film”. Però quando non è vero non è vero: il film omonimo di Edgar Wright è geniale, spassoso, delirante; traspone in modo impeccabile alcuni buoni spunti del fumetto da cui prende ispirazione ma trova strade nuove, aggiungendo secchiate di creatività al materiale di partenza.
Com'è il fumetto? Aprite il dizionario e cercate la voce “carino”.
Sapete cosa trovate? No, non una foto di questo fumetto, bensì la definizione della parola “carino”, che si applica perfettamente allo Scott Pilgrim cartaceo. C'è molto più romanticismo e molti meno combattimenti in stile videogioco, che dal mio punto di vista è certamente un male. 
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Kazuo Ishiguro – Non Lasciarmi

Il titolo evoca fantasmi di libri che non avremmo mai voluto leggere, ma che il liceo o le nostre fidanzate ci hanno costretto a fare: il segnale d'allarme nel nostro cervello suona minaccioso gridando « Storia d'amore! Storia d'amore! Allontanarsi presto! ». 
In effetti, Non Lasciarmi è prima di tutto una grande storia d'amore, ma scritta magnificamente e senza retorica. L'amore non è l'oggetto fine a sé stesso della narrazione, ma l'opportunità per riflessioni dolorose, profonde e vere sulla ricerca di un senso nel mondo, sulla natura inaccettabile ed assurda della morte e in generale su cosa significa essere umani. In pratica è fantascienza spacciata per un romanzo di Jane Austen, e personalmente spero che le fan di Orgoglio e Pregiudizio si facciano fregare. 
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David Randall – Il giornalista quasi perfetto

Ricordo di averlo letto molto in fretta e letteralmente divorato, trovandolo bellissimo e molto interessante: un saggio divertente, ironico ma estremamente dettagliato sul mondo del giornalismo e sul valore dell'informazione per la società.
Ma se la consumazione del libro è stata rapida e piacevole, la sua digestione si è rivelata problematica: David Randall appare troppo ottimista e fiducioso nel “potere della stampa” agli occhi del sottoscritto abitante di questo strambo paese a forma di scarpa. Parla di politici costretti alle dimissioni dopo essere stati sputtanati da inchieste giornalistiche e di cittadini informati che attendono solo una voce in grado di sensibilizzarli. Io, d'altra parte, penso a Scilipoti e sorrido mentre rifletto sul vero ruolo dell'informazione: come si può lottare per la verità ed urlarla a gran voce, se al tuo Paese hanno amputato le orecchie per sentirla?

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H.P. Lovecraft – Le montagne della follia

Ecco uno di quei grandi classici che si passa tutta la vita a dire « Ah sì l'ho letto tre volte, bellissimo! », finché effettivamente non lo si legge, anche perché ultimamente dichiarare di amare Lovecraft è molto di moda. Ebbene, io faccio solo letture strettamente di tendenza e in più nei mesi scorsi avevo un laboratorio noioso all'università, il che mi ha dato ore libere per leggere Le montagne della follia.
Non sono d'accordo con il resto del mondo nel definirlo il capolavoro di Lovecraft (primato che assegnerei ad alcuni suoi racconti brevi); la narrazione, talvolta epistolare talvolta strutturata come diario di viaggio del protagonista, è difficile da seguire, contorta ma al contempo provvista di un inquietante distacco scientifico. Come in ogni racconto di Lovecraft che si rispetti, i personaggi discendono in un abisso di rivelazioni e scoperte inspiegabili, in cui la ragione perde di valore e la verità ancestrale nascosta all'uomo si manifesta più chiaramente. In armonia con la storia, lo stile narrativo diventa oscuro ed evocativo nella seconda metà: non descrive apertamente gli orrori che gli avventurieri disseppelliscono, ma punge la fantasia del lettore invitandolo a prendervi parte. 

domenica 1 maggio 2011

L'inferno solidale

Comunicazione di servizio: se volete leggere un blog, cercatevi un altro blogger; il blogger qui presente è completamente impazzito.

Ho cercato di fermarlo, ma non c'è stato modo: ha deciso che doveva scrivere questa roba e l'ha fatto. Le ho provate davvero tutte e sono anche stato costretto a chiamare rinforzi. Mentre il blogger in questione si agitava farneticando convulsamente frasi come « Post sentimentali mai! Io volevo scrivere un articolo sulla Libia e gli immigrati, poi mi è uscita questa roba! Lasciatemi! », sono accorsi in mio aiuto Babbo Natale ed un politico italiano saggio e onesto. Ogni tentativo di dissuasione, fisico o psicologico, è stato inutile. Per quanto ci provassimo, lui insisteva ogni volta nel dire che non potevamo fare nulla per fermarlo, perchè nessuno di noi esiste davvero.
Ora: passino Babbo Natale ed il politico italiano saggio e onesto, ma io onestamente mi sento un po' offeso.

Firmato: Frank il coniglio invisibile, assistente personale del blogger in questione.

Che cosa, in definitiva, rende tutti gli uomini uguali tra loro?
Cosa abbiamo in comune io, un altro italiano qualunque, un siriano, un libico, un egiziano, un israeliano, un palestinese, un giapponese, un immigrato sbarcato a Lampedusa, un attivista della Lega Nord, un capo di stato, un vagabondo, un malato terminale, un ex dittatore in esilio, un fondamentalista religioso, un ateo, un omofobo, un pedofilo, un sacerdote, un mafioso, un magistrato, un ebreo morto in un campo di sterminio, un nero, un cinese, un nazista, un petroliere texano, uno schiavo, un sottosegretario del Pdl e il terzo portiere di una squadra di calcio?
Siamo tutti uguali, noi membri di questo approssimativo elenco, perchè soffriamo: con espressioni ed intensità tutte diverse, ma sempre allo stesso modo.
Ci sale un senso di fastidio nell'area del torace, evochiamo ricordi e viaggiamo con la fantasia in luoghi di malessere riconducibili alla nosta memoria. Esponiamo luci mentali sopra avvenimenti che avevamo tutta l'intenzione di dimenticare, ma che non possiamo lasciare alle spalle; non ancora, vogliamo dare un'ultima sbirciatina.
Il nostro cervello è una pattumiera di rimpianti e felicità inespresse, di lutti, tragedie, drammi post-adolescenziali che ci paiono la fine del mondo; ognuno di noi pensa di esserne sopraffatto e che la sua situazione lo renda specialissimo, unico al mondo, che il suo dolore irrisolto lo definisca come individuo distinto dalla massa.

Io sono un cittadino del “primo mondo”, un privilegiato abitante della fetta di pianeta con la pancia piena, i vestiti nell'armadio ed un tetto sulla testa. Sono dannato in partenza e, se esiste l'inferno, probabilmente vi sono diretto: la mia opulenza si regge sulle spalle di altri esseri umani uguali a me.
Sono ricco, pasciuto e soddisfatto eppure di tanto in tanto soffro come un cane. Ne sono capace, ne possiedo la “tecnologia emotiva” quanto una madre libica che piange il figlio annegato mentre attraversava il mediterraneo.
Nel mio organismo ribolliscono le medesime reazioni chimiche che scatenano il pianto di un marito la cui moglie sta morendo di cancro: siamo uguali perchè portafogli e marca dei vestiti non contano più niente mentre la nostra realtà si contorce a seconda degli stimoli esterni ricevuti dai tessuti nervosi fino all'ippotalamo. Possiamo chiamarci Gheddafi, Mussolini o Madre Teresa ma il nostro sistema nervoso è influenzato dalla stessa fibra di sostanza reticolare e di vie nervose ascendenti e discendenti: ciò che trasforma i nostri volti in maschere di dolore e disperazione è un apparato del nostro corpo non così diverso o più complesso di quello digerente.
Nel provare emozioni, gli uomini sono identici in modo nobile ed autentico, come quando vanno di corpo: il luogo e la circostanza potranno rendere l'atto più o meno confortevole, ma la sostanza sarà la stessa per tutti i sei e più miliardi di abitanti del pianeta Terra.

Quand'anche questa premessa avesse un senso per chi sta leggendo, immagino che una domanda sorga spontanea; perchè concentrarsi solo sul male che ci affligge, sia individualmente sia come specie nel suo complesso? Perchè pensare che un pianto parifichi, unisca, equipari le persone più di una risata o un momento felice? Che ragione c'è nel credere che lo stare male abbia più potere in questo senso dello stare bene?

La mia risposta, di fatto, è “Non lo so”.
Forse ho una considerazione dell'esistenza troppo legata alla mia idea di arte, alla convinzione che un vero artista non crei mai senza soffrire e che un atto di creazione meritevole, degno di nota, abbia sempre alle sue spalle il dolore in qualche sua forma. Agli animali non è naturalmente concesso di partorire, creare nel vero senso della parola, senza provare dolore; perchè, dunque, dovrebbe essere concesso all'arte di emergere senza un qualche tipo di travaglio fisico o mentale?
Non lo so” è una risposta di primo grado, e probabilmente converrebbe fermarsi qui se la conclusione non fosse così palesemente indecente. Quindi proseguiamo, tanto magari avete lasciato il computer acceso per sbaglio prima di uscire e il vostro criceto sta ancora leggendo.

La mia risposta di secondo livello ruota intorno alla parola “Solidarietà”. Penso che il mondo si riveli spesso un posto brutto e cattivo, dove il dolore ha il merito di unirci e renderci simili. Trovo vi sia un legame profondo tra arte e dolore, in quanto essi sono i costituenti delle libertà di cui l'uomo si avvantaggia maggiormente: “Lacrime e canzoni, le due libertà più grandi” come diceva il mio poeta preferito.
Forse, per queste ragioni, la sintesi dei due elementi è ciò che trasforma la Terra in un inferno solidale, e ci permette di guardarla come qualcosa di più di un “posto brutto e cattivo”. Una ragazza ci spezza il cuore, e noi capiamo come si sentiva quel nostro amico tanti anni fa. In morte di un parente, viviamo i nostri più alti momenti di lucidità, di drammatica consapevolezza su quanto sia breve e preziosa la vita. Ci sentiamo privati dei nostri diritti, anestetizzati ed instupiditi dai governi, ed improvvisamente ci troviamo ad odiare un po' meno chi prima per noi appariva straniero ed ostile. Sentiamo notizie di posti vicini a noi dove avvengono massacri di innocenti, e la mente si sposta al ricordo di cronache storiche il cui significato non ci era del tutto chiaro. Sputiamo sangue mentre il nostro corpo vacilla privo di forze, ed improvvisamente impariamo cosa vuol dire “malattia”. L'amore della nostra vita sembra scivolarci via come sabbia tra le dita, e d'un tratto capiamo come fa Trent Reznor a cantare “Hurt” in quel modo, o come ha fatto De André a comporre “Amico Fragile”.

Pensandoci bene, De André e Trent Reznor sono un paio di buoni motivi per cui vale la pena essere vivi. E per questo dovremmo, almeno in parte, ringraziare l'inferno solidale in cui abitiamo.