domenica 1 maggio 2011

L'inferno solidale

Comunicazione di servizio: se volete leggere un blog, cercatevi un altro blogger; il blogger qui presente è completamente impazzito.

Ho cercato di fermarlo, ma non c'è stato modo: ha deciso che doveva scrivere questa roba e l'ha fatto. Le ho provate davvero tutte e sono anche stato costretto a chiamare rinforzi. Mentre il blogger in questione si agitava farneticando convulsamente frasi come « Post sentimentali mai! Io volevo scrivere un articolo sulla Libia e gli immigrati, poi mi è uscita questa roba! Lasciatemi! », sono accorsi in mio aiuto Babbo Natale ed un politico italiano saggio e onesto. Ogni tentativo di dissuasione, fisico o psicologico, è stato inutile. Per quanto ci provassimo, lui insisteva ogni volta nel dire che non potevamo fare nulla per fermarlo, perchè nessuno di noi esiste davvero.
Ora: passino Babbo Natale ed il politico italiano saggio e onesto, ma io onestamente mi sento un po' offeso.

Firmato: Frank il coniglio invisibile, assistente personale del blogger in questione.

Che cosa, in definitiva, rende tutti gli uomini uguali tra loro?
Cosa abbiamo in comune io, un altro italiano qualunque, un siriano, un libico, un egiziano, un israeliano, un palestinese, un giapponese, un immigrato sbarcato a Lampedusa, un attivista della Lega Nord, un capo di stato, un vagabondo, un malato terminale, un ex dittatore in esilio, un fondamentalista religioso, un ateo, un omofobo, un pedofilo, un sacerdote, un mafioso, un magistrato, un ebreo morto in un campo di sterminio, un nero, un cinese, un nazista, un petroliere texano, uno schiavo, un sottosegretario del Pdl e il terzo portiere di una squadra di calcio?
Siamo tutti uguali, noi membri di questo approssimativo elenco, perchè soffriamo: con espressioni ed intensità tutte diverse, ma sempre allo stesso modo.
Ci sale un senso di fastidio nell'area del torace, evochiamo ricordi e viaggiamo con la fantasia in luoghi di malessere riconducibili alla nosta memoria. Esponiamo luci mentali sopra avvenimenti che avevamo tutta l'intenzione di dimenticare, ma che non possiamo lasciare alle spalle; non ancora, vogliamo dare un'ultima sbirciatina.
Il nostro cervello è una pattumiera di rimpianti e felicità inespresse, di lutti, tragedie, drammi post-adolescenziali che ci paiono la fine del mondo; ognuno di noi pensa di esserne sopraffatto e che la sua situazione lo renda specialissimo, unico al mondo, che il suo dolore irrisolto lo definisca come individuo distinto dalla massa.

Io sono un cittadino del “primo mondo”, un privilegiato abitante della fetta di pianeta con la pancia piena, i vestiti nell'armadio ed un tetto sulla testa. Sono dannato in partenza e, se esiste l'inferno, probabilmente vi sono diretto: la mia opulenza si regge sulle spalle di altri esseri umani uguali a me.
Sono ricco, pasciuto e soddisfatto eppure di tanto in tanto soffro come un cane. Ne sono capace, ne possiedo la “tecnologia emotiva” quanto una madre libica che piange il figlio annegato mentre attraversava il mediterraneo.
Nel mio organismo ribolliscono le medesime reazioni chimiche che scatenano il pianto di un marito la cui moglie sta morendo di cancro: siamo uguali perchè portafogli e marca dei vestiti non contano più niente mentre la nostra realtà si contorce a seconda degli stimoli esterni ricevuti dai tessuti nervosi fino all'ippotalamo. Possiamo chiamarci Gheddafi, Mussolini o Madre Teresa ma il nostro sistema nervoso è influenzato dalla stessa fibra di sostanza reticolare e di vie nervose ascendenti e discendenti: ciò che trasforma i nostri volti in maschere di dolore e disperazione è un apparato del nostro corpo non così diverso o più complesso di quello digerente.
Nel provare emozioni, gli uomini sono identici in modo nobile ed autentico, come quando vanno di corpo: il luogo e la circostanza potranno rendere l'atto più o meno confortevole, ma la sostanza sarà la stessa per tutti i sei e più miliardi di abitanti del pianeta Terra.

Quand'anche questa premessa avesse un senso per chi sta leggendo, immagino che una domanda sorga spontanea; perchè concentrarsi solo sul male che ci affligge, sia individualmente sia come specie nel suo complesso? Perchè pensare che un pianto parifichi, unisca, equipari le persone più di una risata o un momento felice? Che ragione c'è nel credere che lo stare male abbia più potere in questo senso dello stare bene?

La mia risposta, di fatto, è “Non lo so”.
Forse ho una considerazione dell'esistenza troppo legata alla mia idea di arte, alla convinzione che un vero artista non crei mai senza soffrire e che un atto di creazione meritevole, degno di nota, abbia sempre alle sue spalle il dolore in qualche sua forma. Agli animali non è naturalmente concesso di partorire, creare nel vero senso della parola, senza provare dolore; perchè, dunque, dovrebbe essere concesso all'arte di emergere senza un qualche tipo di travaglio fisico o mentale?
Non lo so” è una risposta di primo grado, e probabilmente converrebbe fermarsi qui se la conclusione non fosse così palesemente indecente. Quindi proseguiamo, tanto magari avete lasciato il computer acceso per sbaglio prima di uscire e il vostro criceto sta ancora leggendo.

La mia risposta di secondo livello ruota intorno alla parola “Solidarietà”. Penso che il mondo si riveli spesso un posto brutto e cattivo, dove il dolore ha il merito di unirci e renderci simili. Trovo vi sia un legame profondo tra arte e dolore, in quanto essi sono i costituenti delle libertà di cui l'uomo si avvantaggia maggiormente: “Lacrime e canzoni, le due libertà più grandi” come diceva il mio poeta preferito.
Forse, per queste ragioni, la sintesi dei due elementi è ciò che trasforma la Terra in un inferno solidale, e ci permette di guardarla come qualcosa di più di un “posto brutto e cattivo”. Una ragazza ci spezza il cuore, e noi capiamo come si sentiva quel nostro amico tanti anni fa. In morte di un parente, viviamo i nostri più alti momenti di lucidità, di drammatica consapevolezza su quanto sia breve e preziosa la vita. Ci sentiamo privati dei nostri diritti, anestetizzati ed instupiditi dai governi, ed improvvisamente ci troviamo ad odiare un po' meno chi prima per noi appariva straniero ed ostile. Sentiamo notizie di posti vicini a noi dove avvengono massacri di innocenti, e la mente si sposta al ricordo di cronache storiche il cui significato non ci era del tutto chiaro. Sputiamo sangue mentre il nostro corpo vacilla privo di forze, ed improvvisamente impariamo cosa vuol dire “malattia”. L'amore della nostra vita sembra scivolarci via come sabbia tra le dita, e d'un tratto capiamo come fa Trent Reznor a cantare “Hurt” in quel modo, o come ha fatto De André a comporre “Amico Fragile”.

Pensandoci bene, De André e Trent Reznor sono un paio di buoni motivi per cui vale la pena essere vivi. E per questo dovremmo, almeno in parte, ringraziare l'inferno solidale in cui abitiamo.

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