lunedì 17 ottobre 2011

Nunc Dimittis

Prologo

Quando mi succede di viaggiare in aereo, prego in silenzio di non capitare nella fila dell'uscita d'emergenza; finirei per passare l'intero viaggio a trattenermi dall'impulso di spalancare il portello. Il portello degli aerei IMPLORA di essere aperto tanto quanto il frutto dell'albero della conoscenza implora di essere colto da Adamo. Se qualcuno o qualcosa ti dice «Puoi fare tutto ciò che vuoi, tranne...», all'improvviso non sei più libero.
Per inciso, sto rovinando a chi non l'avesse ancora letto uno dei punti chiave di “Survivor” di Palahniuk, dove il protagonista registra su scatola nera la storia della sua vita pochi istanti prima di schiantarsi con l'aereoplano su cui sta viaggiando.
Se fossimo tutti in caduta libera e il mondo fosse l'aereoplano, questa sarebbe la mia scatola nera.

Non sono mai stato un grande lanciatore di sampietrini, quindi mi attengo a quello che mi gratifica.
Cara scatola nera, qualche mese fa
scrivevo:

Io mi sono messo l'anima in pace. Questi staranno lì fino al 2013 o, più verosimilmente, fino al giorno in cui la gente non manifesterà sotto il parlamento perché non riesce più a comprare il pane. E ad essere onesti, quel giorno non mi sembra troppo lontano... il problema è che non ho ancora deciso se augurarmi che diventi realtà, perché non saprei bene come comportarmi.
Se avessi la pancia vuota, una famiglia in rovina e sapessi esattamente di chi è la colpa, cosa sceglierei di fare? Se la prospettiva fosse quella di perdere tutto, fino a che punto mi spingerei?
Un corteo non-violento?
Un sasso in faccia all'autorità?
Una bomba?
O forse, come la maggior parte dei miei concittadini e coetanei, sarei in bilico tra l'aggressività casuale e l'happy hour con aperitivo incluso-2-consumazioni-6-euro?
In questo periodo, ho ugualmente paura dei sessantenni sulle auto blu, dei ventenni con le molotov artigianali e dei pre-adolescenti con i cocktail con la cannuccia: siamo la stessa razza, la stessa specie in via di auto-estinzione, e nessuno di noi sarà mai l'artefice di una rivoluzione.

Qualche giorno fa,
scrivevo:

Quella di manifestare non contro Berlusconi sì o Berlusconi no, bensì contro un regime finanziario nel suo complesso, senza fare riferimento alle politiche dei singoli governi nazionali ma a soggetti come le banche centrali, le corporazioni, la supposta plutocrazia dell'uno per cento che ingrassa sulla tomba del restante novantanove... mi sembra sia la migliore idea per una manifestazione, anche radicale e fieramente arrabbiata, da un sacco di tempo a questa parte.
Quelle di questi giorni, in tutto il mondo, sono proprio manifestazioni internazionali contro un sistema marcio e si pongono l'obiettivo dichiarato di alterarne l'equilibrio.
La caduta di questo esecutivo sarebbe un giorno di gaudio e tripudio per questo Paese per una serie sconfinata di ragioni, e forse ci porterebbe un po' più vicini ad altre democrazie occidentali che si muovono in modo meno deleterio per rallentare la caduta. Ma pensare che se non governasse Berlusconi si risolverebbero i problemi psico-economico-politici di questo luogo infame è folle. La camera, il senato, Palazzo Chigi o Arcore non sono la patologia; sono solo sintomi.

Qualche ora fa,
scrivevo:

Dubito che a Luigi XVI, mentre saliva sul palco della gigliottina, fosse venuto in mente di provare a cavarsela dicendo alla folla «Uccidere è sbagliato!», o a Mussolini di arringare la massa sul punto di linciarlo con un discorso dal tono «La capacità di perdonare è una delle più grandi qualità dell'essere umano!».
Però uccidere è sbagliato; non è una convinzione etica soggettiva o mutevole a seconda del contesto, è una delle poche cose su cui tutti sono dannatamente d'accordo.
Su questa base, però, si appoggia anche tutta la retorica di queste ore, un perbenismo ipocrita e pompato che serve a dividere i manifestanti buoni da quelli cattivi. Non ho mai lanciato un sasso contro un poliziotto in vita mia e in tutte le manifestazioni a cui sono stato il mio momento di massima gloria consisteva nello scappare alle cariche. Sono dunque un manifestante buono? E, in ultima analisi, a che cazzo servo?
Gandhi diceva che tra un non-violento per vigliaccheria e un violento, è meglio il violento.
La mia più grande colpa è l'opulenza, la pigrizia e la codardia che alimentano il mio pacifismo di convenienza, ciò che credevo fosse un ideale importante è figlio delle dinamiche di consumo con le quali sono cresciuto.
Certo, è un peccato irredimibile ed è una condanna che condivido con il potere che, a parole, critico; ma almeno ho la decenza di riconoscerlo, guardarlo in faccia. E per giunta faccio meno danni dei poveri illusi che credono di attaccare il sistema con i sassi e le bastonate sui suv.
La mia vocina interiore è più molesta del solito, perchè intravedo negli assalti ai blindati le stesse dinamiche “da stadio” di chi inneggia alla lotta armata come se questo scenario fosse una finale di coppa. Le trovo così familiari e facilmente riconoscibili perché sono anche parte di me e albergano nella mia stessa personalità: la tav, il capitalismo, Berlusconi, la champions league, la Gelmini e l'ubriacarsi tutte le sere sono note dello stesso rumore bianco che risuona nel mio cervello, e non posso farci niente. Non conta cosa, dove, come e perché: conta essere parte di qualcosa. Qualunque cosa. 
Non penso che i metodi violenti, la guerriglia urbana siano da condannare per ragioni etiche; io ho le mie e le considero una priorità assoluta, persino più importante della mia libertà personale. Solo il tempo mi dirà se le mie priorità cambierebbero con meno soldi in tasca e senza un tetto sulla testa. Chi crede nella necessità di una rivoluzione (e io ci credo) deve fare i conti con le modalità storiche con cui se ne mette in atto una. Ma almeno ho la lucidità e la modestia sufficente a capire che una manifestazione come quella del 15 ottobre è controproducente e funzionale alla repressione.

Adesso,
tengo in pugno una scatola nera e aspetto il botto finale.
Per Kierkegaard l'angoscia è il modo in cui si manifesta in noi la possibilità. É il sentimento della possibilità stessa: la consapevolezza di quello che occorrerebbe fare per essere liberi.
Risucchio dell'aria fuori dall'aereo, maschere ad ossigeno che cadono, caos, urla.

sabato 8 ottobre 2011

Chi siamo, da dove veniamo, è pronto da mangiare?

Aspetto quel momento da sempre, ma quando ci sarò vicino dubito che mi troverò a dire «Finalmente!».
Il fatto è che la vita, per qualcuno che un giorno dovrà morire, non è facile. Mi capita di interrogarmi sul senso della mia angoscia verso un futuro, il mio, già in gran parte deciso: un periodo di tempo variabile e su cui non ho quasi controllo, poi un'eternità dentro una cassa sotto due metri di terra.
O forse all'interno di un vaso, con le sembianze di un mucchietto di cenere.
Non sono pronto a questo, ma non penso che lo sarò mai quindi tanto vale fermarsi un attimo e parlarne. Cosa vuol dire morire?

«Pulvis et umbra sumus, caduchi come foglie in autunno», direbbe qualcuno che ha frequentato le classi alte.
«Siamo piccoli, stupidi, incapaci e duriamo poco», direbbe qualcuno che ha frequentato le classi basse.
«Memento Mori è una massima di Sesto Properzio», direbbe qualcuno che non ha frequentato le classi.

I migliori sono sempre i primi ad andarsene, soprattutto se dall'altra parte li pagano meglio. Questa è una delle poche riflessioni che mi rassicura sulla mia probabile longevità.

Ho fatto davvero troppo poche cose nella vita per permettermi di pensare alla sua conclusione. Non ho mai montato la panna, per dirne una. Mai.

Trovo che i testi delle canzoni di Iggy Pop & The Stogees siano pieni di bellissime immagini e allo stesso tempo ricchi di un brillante senso dell'umorismo: in questo istante sto ascoltando “Search and Destroy” e il vecchio Iggy ha appena finito di cantare «I'm a streetwalking cheetah with a heart full of napalm», e se tutto questo non sembra aver nulla a che fare con la morte... è perchè non ne ha. È solo una bella immagine.
In fondo, una bella immagine è il massimo che possiamo permetterci, quando proviamo ad affrontare l'argomento.

Mi sento vecchio. Non vecchio, ma in qualche modo “già vissuto” e anche appena nato. Durerà a lungo? Diventerà più facile invecchiando? Queste domande hanno un senso per chi legge fuori contesto rispetto al rivolo di pensieri casuali di un cervello medio come il mio, oppure sono caotici come l'editoriale di un giornalista che oggi non sa come occupare le righe?
C'è un solo, autentico mistero nell'universo: i puzzle. Pensare allo spreco di interi pomeriggi, giornate, nottate passate ad incastrare frammenti di cielo, brandelli di monumenti celebri e schegge di panorami mi mette i brividi.
É terribile sacrificare tempo prezioso nella costruzione del mosaico che si ha di fronte a sé, per poi accorgersi che ci manca un tassello. In un'opera quasi completa, la prima cosa che salta all'occhio è proprio il buco. Nessuno mi conosce peggio di me stesso e comunque non mi piacciono i puzzle, io sono uno da Risiko.

Ho 22 anni. Quasi un quarto di secolo a parlare di cazzate autoindulgenti, di cui le righe qui sopra sono un rimarchevole esempio. Libri, compiti poco importanti da svolgere, compagnie più o meno interessanti e una cronica mancanza di ragazze. E ora? Che cosa mi/vi/ci aspetta? Non posso dirvelo, ma non è per aumentare la suspense e quindi le vendite.
Alcune cose, però, sono già decise: ad esempio, il protagonista del mio futuro sarò ancora io; non Batman, come voleva il caporedattore. Quanto al resto, ci stiamo lavorando. Manca ancora un po' di tempo, spero, all'ora X, e in quel tempo si possono fare un mucchio di cose: le ferie, per esempio.

In questo momento state leggendo. Chi vi dice che, invece di leggere, non avreste potuto pilotare un K66 a decollo verticale? Tutto è possibile e quasi tutto, per noi che possiamo permettercelo, è accessibile. La fetta di mondo nel quale vivo ha letteralmente la libertà di fare quello che vuole nella vita: nessuna grande guerra o grande crisi a bloccarci la strada, checché ne dica l'opposizione di sinistra.
Tutti moriamo, il punto non è questo. Il punto è provare a fare qualcosa che non sarà soggetto alle nostre stesse regole, qualcosa che non morirà mai; impresa praticamente impossibile, giusto Babbo Natale e i grandi artisti vi riescono. E sappiamo tutti che i grandi artisti non esistono.

Non si può pensare di scrivere una conclusione coerente per una pagina casuale: talvolta si scrive cercando di imitare la sincope ritmica degli eventi di una vita.
I meccanismi della casualità sono complicati a prima vista, ma in realtà piuttosto semplici: non ho mai sentito un essere umano venire al mondo dicendo «Tutto qui?», dunque presumo che l'esperienza del vivere sia qualcosa da farsi bastare, nella sua nebbiosa casualità. La vita dopo la morte, come la nebbia, si porta appresso il paradosso tautologico del “Se c'è, non si vede”, e come si fa allora a capire se c'è o non c'è, e quando arriverà?
Ed è poi così importante saperlo mentre si è ancora vivi? Se ci si riflette in modo razionale, il primo passo verso la vita eterna sta nel fatto che bisogna morire.
«Se prendiamo una linea temporale lunga abbastanza, il segmento della nostra durata nella storia si riduce a zero» diceva uno che, nemmeno fisicamente, somiglia molto a Schopenhauer.