L’altro giorno riflettevo...
no no no, scusate, fermi tutti.
Prima la sigla:
L’altro giorno riflettevo sul
significato dell’antipolitica di cui si parla in questo periodo. Riflettevo per
modo di dire: in realtà stavo battendo violentemente il cranio contro un muro
di cemento armato, ricordando che, soltanto 4-5 anni fa, il movimento a cinque stelle mi
sembrava un’ottima idea.
Anche per via del valore che
attribuisco all’idea stessa di trovarmi in minoranza (sono vegetariano, tifoso
del Toro e protestante, se fossi anche gay avrei fatto jackpot), non potevo non
subire il fascino di chi, fin dalle sue origini, si definiva come antipolitica.
A essere onesti, e in parziale
difesa del me stesso diciottenne, il movimento fondato da Beppe Grillo ha
espresso alcune posizioni che tutt’ora condivido e sostengo: i discorsi
sull’energia, lo sviluppo sostenibile e l’ambiente, le campagnie di
informazione sul livello di corruzione e criminalità della politica e
l’insistere sul concetto di “politico come nostro dipendente” sono argomenti
che considero sacrosanti e inattaccabili. Purtroppo, un movimento perde di
credibilità e integrità quando i suoi aspetti più universalmente positivi sono
mescolati alla melma populista da quattro soldi, a una disumana valanga di
contenuti non condivisibili presenti su quella che dovrebbe essere la
piattaforma ufficiale (il blog di Beppe Grillo) e a una propaganda no-tav che degenera
costantemente nell’incitamento alla violenza.
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digiunando pubblicamente a staffetta? |
In estrema sintesi, ora come ora
il movimento a cinque stelle mi sta parecchio sulle palle, e sono un pò
affranto che il dibattito sull’idea di antipolitica in Italia debba fare
riferimento a Beppe Grillo e le sue stronzate.
Per me, il simbolo
dell’antipolitica è un uomo che con Beppe Grillo non ha nulla da spartire: si
chiama Jena Plissken, Snake in inglese, ed è la più azzeccata
e brillante incarnazione cinematografica del mio eroe (e personale punto di
riferimento quando ho voglia di lanciarmi in un delirio anarcoide) John
Carpenter.
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ho sentito un "cazzo, sì!" là in fondo? |
Se dovessi spiegare a un grillino
cosa intendo per antipolitica, prima di tutto gli farei vedere Fuga da Los Angeles. Se a diciotto anni
avessi dato retta a Plissken (chiamami
Jena!) invece che ai discorsi del Vaffanculo Day, ora il progresso della
mia personalità sarebbe un pochino più avanzato; ma procediamo con ordine: chi
è Jena? (mi chiamo Plissken!) e di
cosa parla Fuga da Los Angeles?
Nel mio percorso di formazione di
un’identità politica, ho sempre prestato particolare attenzione all’elemento
dell’anticonformismo. In un certo senso credevo (e forse un pò credo ancora)
che dubitare delle idee e dei comportamenti prevalenti sia sempre una buona
idea. Del resto, Brecht diceva che il pensiero dominante non è altro che il
pensiero delle classi dominanti e già questo può giustificare chi si qualifica
come anticonformista, o aspirante tale.
Quando però si comincia a
invecchiare un pochino, e i propri ideali vengono messi in discussione, l’anticonformismo
passa attraverso una lente di osservazione inedita e comincia a somigliare al
suo opposto. Entrambe le idee assumono le sembianze di etichette pop ben
confezionate e vendibili, due canali di sublimazione organizzati per incanalare
il “pensiero dominante” più conveniente del momento: il conformismo più
elementare e confortevole, l’anticonformismo più contorto ma potenzialmente più
soddisfacente ed eversivo.
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ok, però vai avanti |
Ma perchè parlare in termini così
astratti, se il soggetto è l’esigenza di
antipolitica che sembra crescere in Italia?
Perchè la vera antipolitica deve
spazzare via sia conformisti sia anticonformisti; devono perdere tutti, come
direbbe Plissken (chiamami Jena), il
sistema deve spegnersi senza che un nuovo capo prenda il posto di quello
vecchio.
In ogni rivoluzione c’è sempre un
difetto, ed è un difetto lungo cinque lettere: gente.
Nell’essere maturato quanto basta
per vedere conformismo e anticonformismo
per quello che sono veramente, due facce della stessa medaglia che prendono
entrambe troppo in considerazione la massa e la contemplano come necessario
punto di riferimento per saggiarne la vicinanza o il distacco, non posso non
stringere la mano con gratitudine al vecchio Jena (mi chiamo Plissken) ed inchinarmi davanti al mio personale libro
rosso dell’antipolitica, Fuga da Los
Angeles.
Il film, a metà strada tra un
sequel e un remake scena per scena del primo capitolo Fuga da New York, lancia un messaggio metacinematografico e
spietato, nel quale John Carpenter dimostra che, quando gli studios ti offrono
montagne di soldi per replicare una formula e vendere biglietti del cinema e
pupazzetti senza prestare attenzione al contenuto, la cosa più intelligente da
fare è prenderti i soldi e fare quello che ti pare.
Con questa premessa, l’intenzione
originale di esaltare il mito del suo personaggio, diventato con il tempo un’icona
alla Rambo, Terminator e simili eroi d’azione destrorsi figli dell’era
Reaganiana, scompare in favore di una decostruzione dissacrante: invece di
approfondire la mitologia di Jena (Plissken!), Carpenter si diverte a
smontarlo, quasi come se il personaggio stesso si opponesse alla sterile
riproposizione della formula che aveva funzionato prima, e facesse capire di
essere stanco. Plissken (Jena!) si siede quando dovrebbe correre, rallenta
quando dovrebbe accelerare e, se c’è una sfida da vincere o una prova da
superare, trova il modo meno eroico e più anticlimatico per farlo.
L’(anti)eroe interpretato da Kurt
Russel deve decidere se sposare la causa dei potenti o dei rivoluzionari, se
permettere o impedire il crollo della civiltà occidentale in favore di un nuovo
ordine governato dal “terzo mondo”. Trovatosi in mezzo ad una specie di fuoco
incrociato tra il presidente degli Stati Uniti (che sembra molto Ronald Reagan)
e il capo dei rivoluzionari (che è un pò un incrocio tra Che Guevara e Bossi) ,
l’unica cosa ragionevole è segnare una sconfitta generale, universale e definitiva
per il genere umano, un ritorno al un’anarchia quasi medievale che metta tutti
sullo stesso piano. L’antipolitica consiste nel fare la terza cosa tra due
decisioni da prendere, con la maturata consapevolezza che magari ci sono
davvero i buoni e i cattivi, ma è
molto più probabile che siano tutti
cattivi.
Lo stato della politica in Italia è quello che è: chi ci governa non ha la minima idea o il minimo contatto con il mondo reale che dovrebbe amministrare. Gli stessi politici, nella loro quasi totalità, sono più un cancro che una cura e contribuiscono alla messa in scena della nostra rovina collettiva. Aspiriamo tutti ad un eroe carpenteriano che risolva le cose in nostro favore ma... la verità è che Jena ci guarderebbe in faccia e ci tratterebbe come colpevoli, più che come vittime. E avrebbe ragione.
Berlusconi non si è eletto da solo, Grillo è libero di sparare cazzate perchè c'è chi lo sta a sentire e, se qualcuno comincia ad avere problemi con la Lega Nord, avrebbe potuto pensarci vent'anni fa prima di farli diventare così potenti.
Avremmo potuto fare qualcosa
invece di fondare un’opposizione inutile e disperatamente poco laica. Avremmo potuto
manifestare contro questo accumulo di
privilegi, invece di preoccuparci solo del destino della Val di Susa. Avremmo potuto
spegnerli... avevamo il telecomando
per farlo. Ma invece di fare come Jena, lo abbiamo consegnato all’antipolitica
più finta e manipolatoria mai esistita: abbiamo scelto l’anticonformismo più
conformista che potessimo trovare.
Benvenuti nel regno della razza
umana.
p.s. secondo tentativo! Chi indovina a cosa si riferisce il
titolo vince un pupazzetto di Jena Plissken.